martedì 21 gennaio 2014 7 commenti

Senilità

Chiamando a raccolta le deboli forze che l'età gli metteva a disposizione, un caro ma decrepito vecchietto si mise in cammino lungo la via diretto al Bar Sport, meta di anni giovani e forti.
Ogni giorno aveva il sapore dell'ultimo, come se qualcuno giocasse alla roulette russa con la sua anima, aspettando che il grilletto centrasse il colpo e che la vita trapassasse. Nell'attesa c'era sempre tempo per l'ultimo caffè e per l'ultima sigaretta, perché da qualche parte in quei polmoni marci di catrame doveva pur esserci un bronco ancora in grado di respirare. 
Puntellandosi col suo fedele bastone, arma di saggezza contro gli innocenti soprusi di bimbi molesti, si fece strada fra le frenetiche vie della città popolate da uomini d'affari, giovani studenti, mamme in carriera e bimbi sperduti. Nonostante tutti quanti sembrassero avere una meta ben precisa, quel caos calmo dava l'idea di un grande impasto di nullità e di pedine mosse per il solo piacere di farlo. Passò rapida una gran signora, tacchi a spillo e gonna stretta a delle natiche tonde, un gran bel davanzale, vestita d'importanza e di Chanel. Non le staccò lo sguardo di dosso, vecchio libidinoso, ma a quel sogno non seguì desiderio, come se le sirene cantassero ad un Ulisse ormai sordo e decrepito.
Giunse finalmente al Bar Sport, trovò un tavolo libero e si sedette, implorando alle proprie ginocchia un ultimo sforzo fatto di santi e bestemmie. Perché se non trovi Dio da vecchio, è proprio vero che non l'hai mai cercato.
Prima di ordinare, si sedette accanto a lui una vecchia reliquia del tempo, che insieme quasi raggiungevano il bicentenario. Povero straccio. Vestito di Caritas, le maniche corte della sua camicia a quadri lasciavano penzolare una pelle ruvida e grinzosa come una castagna secca, mentre le mani, deboli ma sapienti, cercavano un appiglio al quale reggersi. Un paio di graziosi pinocchietti gli davano un aria da pescatore e i sandali ai piedi lasciavano intendere che sapeva bene di non puzzare. Infatti non puzzava. Solo di tanto in tanto, aprendo bocca per cacciar via muco e catarro, s'avvertiva nell'aria un flebile odor d'ospedale misto a formaggio rancido.
- Cosa prendi? - chiese il primo.
- Un caffè, grazie.
- Non rimpiangi nulla? - ribatté. 
Il caro vecchietto accennò una smorfia di disappunto tirando su una delle sue grosse narici, poi riprese:
- Forse, ma ormai è andata. Sappiamo bene come va a finire, eppure dedichiamo parte dei nostri giorni e dei nostri tempi felici alle cose banali e superflue, cerchiamo d'avere ragione e litighiamo perché gli altri se ne accorgano. E' una gara a chi arriva primo pur sapendo che al termine della corsa non ci saranno podi né premi.
- E se ti concedessero un'altra vita? E se ti dessero dell'altro tempo?
- Non lo vorrei. Ne sprecherei ancora sapendo d'averlo. Mi ricordo di una cara donna che mi lasciò per un altro uomo. Persi degli anni a riconquistarla e non ci riuscii, se tornassi indietro potrei guadagnare quei giorni. Ricordo di una bravata fra amici. Mi schiantai in bici contro un albero e rischiai di rimanere paralizzato per sempre. Persi degli anni per rimettermi in sesto, se tornassi indietro potrei riavere quei giorni. Ricordo di un pugno sferrato in faccia ad un mio coetaneo prepotente e buffone, gli ruppi il setto nasale. Mio padre mi diede delle vergate e mi chiuse in casa per settimane. Se riuscissi potrei farmi ridare quei giorni. Sono tanti i modi in cui ho perso del tempo, ma se non l'avessi fatto cosa avrei da raccontarti adesso?
Dagli occhietti serrati dell'altro si fece spazio una lacrima pura e cristallina, intrisa di errori e di speranze, di scelte fatte o subite, ma carica dell'esperienza di chi ne ha viste tante da poter dire d'aver vissuto...
sabato 11 gennaio 2014 0 commenti

11 gennaio 2014

Bentornato a casa. Disfa le valigie e riposati.
Se c'è qualcuno che ti aspetta, da qualche parte, sempre, significa che stai facendo un buon lavoro. Certe cose bisogna perderle, sentire la loro mancanza e ritrovarle con gioia per misurare esattamente quanto valgono. Ci sono noie che non lasciano scampo: l'abitudine appiattisce gli affetti e intorpidisce l'animo. Non c'è contraddizione più grande insita nella natura umana che quella di dimenticare le proprie fortune quando le stringi in un pugno e non c'è maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella disgrazia, dissero i grandi.
Molti figli del terzo millennio, orfani di una modernità che non offre stipendio, se ne rendono conto solo adesso. Ed io con loro. Londra, Germania, Francia. Chissà chi resterà in paese. Chissà chi pagherà i caffè. Chissà chi insegnerà ai figli delle campagne a costruir capanne di legno sui terreni genuini in cui crescevano le fragole. Chi le ruberà, quelle fragole?
C'è qualcosa di subdolo in un malessere che sa di benessere malcelato ma ostentato dalla tecnologia e dai lustrini delle grandi firme. "E' il vostro paese che vi caccia" mi dissero mentre aspettavo il mio turno ai controlli di sicurezza. Me lo dissero mentre le braccia pesanti dei parenti e degli amici si alzavano mimando un saluto fatto di nostalgie e di speranze. Certi occhi si persero fra tutti quelli sguardi tristi intenti a ritrovare affetti e calore, ma alla fine ci si volta. "E' il vostro paese che vi caccia". Me lo dissero con la freddezza chirurgica di chi opera a cuore aperto, trancia arterie e poi si sbaglia, tanto il paziente l'avremmo perso comunque. Di cosa soffriva? Era malato?
A volte ci si dimentica che siamo tutti viaggiatori di un treno senza meta e senza macchinista, che si ferma e poi riparte, forse deraglia, ma sempre pieno di capitreno che, in divisa e sicuri del proprio posto, controllano i biglietti a noi viaggiatori dalla triste figura. Ma quanto pesa quella valigia.
Rimetti i vestiti al loro posto. Venti chili? Puoi andare. 
Se il paese che mi caccia iniziasse a meditare sulle sue responsabilità...

 
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