Non c'era nessuno in tutta la contea e forse anche oltre i confini delle regioni limitrofe che non conoscesse i chirurghi Faccibbedda. Maestri sapienti, da centinaia di generazioni la fiamma viva del loro successo ardeva di luce propria, alimentata semplicemente dalla bravura che li contraddistingueva.
Tutti richiedevano il loro aiuto: capricci di gioventù o ghiribizzi stravaganti, per il solo gusto di piacere e di piacersi; ustionati, feriti o sfigurati gravi per il sacrosanto diritto di vivere con serenità; difetti e ritocchi per dare forma a ciò che madre natura per errore scarabocchiava. Nessuno mai venne deluso dal loro lavoro.
Per molti anni il nome dei Faccibbedda visse nella leggenda, ma giunti alla ventesima generazione, dopo che tanti figli di talento vennero messi al mondo, l'ultimo seme del sapere, Gaetano detto "Tano", venne fuori con il gusto per l'imprevedibile.
Egli, stanco e assuefatto dalla monotonia e dalla perfezione di quella famiglia così rinomata ma dal destino segnato, volle uscire fuori dagli schemi. La responsabilità del suo nome altisonante già da tempo gli pesava sul groppone e impellente per lui si faceva la necessità d'abbandonarsi ad un nuovo destino. Non c'era modo di sfuggire all'occhio dei passanti, ovunque veniva riconosciuto e adulato. Richieste d'aiuto e suppliche, congratulazioni e premi, ovunque i Faccibbedda avevano da riscuotere qualcosa. Estraniarsi era pressoché impossibile.
Accadde una sera, tuttavia, che all'imbrunire un pover'uomo senza dimora e vestito di stracci passasse lungo la via di casa Faccibbedda. Tano, vedendolo solo e anonimo, fu attraversato da un lampo di genio, di quelli che scuotono la materia grigia e che quasi provocano l'orgasmo. Corse in fretta per strada e silenzioso come un felino gli diede una bastonata sulla nuca.
Lo portò in casa, tramortito, e lo adagiò sul letto. Prese gli strumenti da lavoro, bisturi, ago e filo e iniziò ad incidere lungo il volto del malcapitato. Strappata via la faccia del barbone, eccitato com'era e in preda all'euforia, senza dolore alcuno incise anche se stesso lungo il volto, seguendo il perimetro tracciato poco prima.
L'intervento durò tutta la notte. Ricucì con cura tutto quanto e fuggì via, lasciando i propri averi, il barbone sconcio e la città.
Fu un successo. Con un volto così anonimo nessuno lo riconobbe per strada e indisturbato s'aggirò per la contea concedendosi ai lavori più disparati: lavapiatti, mercante, allevatore, contadino, cuoco. Saltò da un punto all'altro del globo, non fermandosi mai, rinascendo dalle sue ceneri e in condizioni sempre diverse.
Un giorno accadde che, passeggiando indisturbato per le vie della capitale, incrociò un pomposo miliardario, accompagnato dalle sue fedeli concubine. Pervaso dall'invidia per quell'altezzoso modo d'essere e d'apparire, la schizofrenia lo rapì e subito macchinò un nuovo intervento.
Dopo averlo reso inerme incise il suo volto, strappò via la faccia da barbone e si impiantò una nuova maschera. Eccitato corse dalle concubine le quali, riconoscendo il volto familiare, lo coccolarono come per loro era solito fare.
Tano non ebbe più pace. Dannato e senza freni strappò volti senza pietà, cambiando vita, emozioni, sentimenti e realtà. Fu tutto e niente, irriconoscibile agli altri come per sé, cambiando maschere, sfacciato.
Il caso volle che poco prima della sua morte l'ultima vittima della sua schizofrenia fosse un attore di fama internazionale. Lo seppellirono nel tempio della commedia dell'arte e l'epitaffio così recitava:
"Uno, nessuno, centomila..."
Lo portò in casa, tramortito, e lo adagiò sul letto. Prese gli strumenti da lavoro, bisturi, ago e filo e iniziò ad incidere lungo il volto del malcapitato. Strappata via la faccia del barbone, eccitato com'era e in preda all'euforia, senza dolore alcuno incise anche se stesso lungo il volto, seguendo il perimetro tracciato poco prima.
L'intervento durò tutta la notte. Ricucì con cura tutto quanto e fuggì via, lasciando i propri averi, il barbone sconcio e la città.
Fu un successo. Con un volto così anonimo nessuno lo riconobbe per strada e indisturbato s'aggirò per la contea concedendosi ai lavori più disparati: lavapiatti, mercante, allevatore, contadino, cuoco. Saltò da un punto all'altro del globo, non fermandosi mai, rinascendo dalle sue ceneri e in condizioni sempre diverse.
Un giorno accadde che, passeggiando indisturbato per le vie della capitale, incrociò un pomposo miliardario, accompagnato dalle sue fedeli concubine. Pervaso dall'invidia per quell'altezzoso modo d'essere e d'apparire, la schizofrenia lo rapì e subito macchinò un nuovo intervento.
Dopo averlo reso inerme incise il suo volto, strappò via la faccia da barbone e si impiantò una nuova maschera. Eccitato corse dalle concubine le quali, riconoscendo il volto familiare, lo coccolarono come per loro era solito fare.
Tano non ebbe più pace. Dannato e senza freni strappò volti senza pietà, cambiando vita, emozioni, sentimenti e realtà. Fu tutto e niente, irriconoscibile agli altri come per sé, cambiando maschere, sfacciato.
Il caso volle che poco prima della sua morte l'ultima vittima della sua schizofrenia fosse un attore di fama internazionale. Lo seppellirono nel tempio della commedia dell'arte e l'epitaffio così recitava:
"Uno, nessuno, centomila..."