martedì 24 luglio 2012 12 commenti

Conto fino a dieci

Rozzo e nerboruto, non molto alto, decisamente impulsivo. Mai la vita gli diede l'opportunità d'apprendere la nobile quanto precaria arte del vivere sociale, fatta d'educazione e pazienza. Per molti anni un vecchio orfanotrofio gestito da suore fu la sua unica dimora, spiacevole, poco accogliente, di certo non avrebbe reso orgoglioso il Cristo che gentilmente aveva prestato il nome alla struttura. Non aveva un buon rapporto, né con le suore, né con il resto dei compagni che con lui condividevano quella triste situazione, ma sapeva bene che un tetto ed un pasto caldo muffito raramente lì fuori, con quel caratteraccio, l'avrebbe trovato.
La svolta arrivò ad inizio estate, quando una coppia giovane di sposini a causa della di lui sterilità, ebbe la felice idea d'adottare un pargolo del "Bambin Gesù". Inspiegabilmente, fra i faccini delicati e puliti di coloro che sapevano di giocarsi il futuro in un sorriso, scelsero proprio il suo lerciume. Lui, incredulo tanto quanto i suoi amici per la buona sorte, corse timido ad afferrare le mani dei suoi nuovi tutori, capo chino. Era stato scelto, qualcuno l'aveva accettato e stavolta non con un'ascia (per aver sferrato un cazzotto ad un suo compagno di stanza, infatti, suor Germana tempo addietro lo minacciò con l'accetta per la legna).
Ne venne fuori una famiglia veramente felice. Lo ripulirono, lo sgrassarono per bene, gli impartirono un'educazione ferrea con le giuste sfumature di vizi e capricci. Un nuovo futuro gli si stagliava di fronte, fatto di rapporti umani e di confronti col prossimo. Il padre, insegnante di lettere, gli trasmise la passione per la letteratura e le arti umanistiche; la madre, insegnante di filosofia, lo illuminò con il profondo sapere delle grandi personalità greche. Mise in moto il cervello, ripartirono meccanismi ed ingranaggi che per molti anni, incrostati di ruggine e assopiti dal lavoraccio svolto dalle suore, non gli permisero di sfruttare appieno le sue potenzialità. Tanto fu brillante che i suoi nuovi genitori non ritennero necessario mandarlo a scuola. Aveva tutto ciò che serviva per eccellere e, oltretutto, poteva pur sempre contare sull'aiuto dei due insegnanti di famiglia.
Una sola cosa non riuscirono a correggergli: quella stramaledetta, irrefrenabile impulsività. Perdeva facilmente le staffe e il suo raziocinio correva veloce quando si trattava d'apprendere, ma cozzava contro un'imponente muro quando era ora d'aver pazienza. Per carità, l'educazione e i princìpi che aveva facilmente imparato lo portavano ad uscire fuori dai gangheri per delle palesi ingiustizie, ma non sempre è possibile dar sfogo alle proprie fantasie, perché c'è chi dice che dove difetta la legge terrena ci pensa quella divina.
Gli anni trascorsero tranquilli e le sue giornate si rincorsero l'una dietro l'altra, fra lavori manuali e intellettuali, connubio che ricorda alla mente di tastar le idee con le mani e alle mani d'essere attrezzi della conoscenza.
Accadde una notte, figlia della più spietata insonnia, che a lungo rimase a fissare il soffitto, senza che il sonno potesse far strage dei suoi pensieri. Solo all'alba riuscì a sentire pesanti le palpebre, ma l'inaspettata e folle ingiustizia girò l'angolo disturbando la sua anima. Il vicino di casa, noncurante delle necessità altrui, aveva infatti dato sfogo alle sue libertà lasciando urlare al suo stereo le note di orribili canzoni da dopoguerra. La musica, forte ed assordante, sfondò le pareti della sua stanza picchiettandogli i timpani; l'insonnia tornò e, sentendo la follia salirgli in corpo, uscì di casa, ciabatte e pigiama.
Giunto che era di fronte alla porta del presunto malfattore, bussò con violenza. Gli aprì un ciccione in mutande con aria indifferente, dalla camicia sporca di sugo e il boccone ancora fra i denti. Il nostro vecchio orfanello lo scansò con violenza, facendogli andare di traverso quanto stava tentando di masticare e, raggiunto il salone in cui si trovava lo stereo, afferrando con rabbia una sedia a lui vicina, iniziò a martellare il frutto di quell'odio che tanta rabbia gli aveva suscitato in corpo. Ridusse tutto in mille pezzi, sedia e stereo, poi andò via. Il padrone di casa, spaventato, non ebbe nemmeno il coraggio di replicare.
Tornatosene a casa, finalmente regalò un dolce sonno alle proprie membra.
Accadde, la settimana successiva, che la rabbia del nostro orfanello nuovamente facesse capolino fra le pieghe della sua apparente tranquillità. Stavolta, tornando a casa in auto, rimase bloccato lungo la via da una macchina inspiegabilmente parcheggiata di traverso. Di grossa cilindrata, fiammante ed arrogante, tutto lasciava intendere che i legittimi proprietari di quel mezzo dovessero essere altrettanto superbi. Sentì quella strana e solita sensazione di giustizia ribollirgli in corpo e, senza pensarci troppo, scese dalla sua auto, diretto al rifornimento di benzina più vicino a lui. Riempì quante più bottiglie poté e, tornato sul luogo del misfatto, iniziò a cospargere di carburante la tracotanza che bloccava la strada. Poi, non appena vide d'averla bagnata per bene, diede vita al più grande falò di giustizia che mai illuminò l'umanità. Stavolta, però, qualcuno fece giustizia su di lui e si beccò carcere e denunce.
Pagata la cauzione, i suoi genitori adottivi ebbero l'anima abbastanza pia da ridurre le sue pene. Tornati a casa iniziarono a crogiolarsi e ad affliggersi su cosa essi avessero sbagliato nell'impartire la giusta educazione al proprio figlio. Pensarono a lungo, per giorni e giorni, ma alla fine, perché ogni sforzo di ricerca dona a chi persevera il dolce sapore della vittoria, trovarono il problema: la matematica. Non avevano infatti mai imparato al proprio figlio le tabelline e i numeri; questo chiaramente gli impediva di contare fino a dieci attendendo che il ribollir della sua ira si placasse senza sfogo alcuno.
Iniziarono subito. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9.... Bastò arrivare fino a 10. Da allora in poi, in qualsiasi istante la rabbia del nostro orfanello incendiasse la sua anima, una paziente conta numerica gli permise di inghiottire ogni boccone amaro. 
"Ché ad andar avanti ad occhio per occhio, il mondo diventa cieco..."
venerdì 13 luglio 2012 6 commenti

Utopia

Nonostante io l'abbia sfilato via dalla libreria di casa titubante e timoroso d'immergermi nella più tediosa delle letture, molti sono stati gli spunti e le riflessioni che hanno reso fruttuoso il tempo trascorso in compagnia del Moro. Prima che queste possano fuggire via dalla mia memoria, non posso che scrivere due righe sul blog e condividerle con voi.
Thomas More (italianizzato in Tommaso Moro senza che lui ne abbia espresso consenso), è l'autore del libro che poco sopra ha dato il titolo a questo post: "Utopia". Prima di analizzarne direttamente la trama, vorrei spendere due paroline sull'etimologia stessa della parola, sapientemente coniata dallo stesso Moro.
Utopia, da οὐ ("non") e τόπος ("luogo") significa letteralmente "non-luogo". Questo già ci spinge ad indagare sul contenuto del libro che, dato il titolo, si suppone tratti di qualcosa che va oltre il reale concepimento di uno spazio o di un'idea e dia libero sfogo all'immaginazione. Come Wikipedia ci fa notare però, dall'omofonia inglese dovuta alla pronuncia di "utopia" ed "eutopia" ne risulta un'etimologia differente, un po' più rassicurante, che deriva dal greco εὖ ("buono" o "bene") e τόπος ("luogo"), "buon luogo", segno che in quel "non-luogo" probabilmente vorremmo tanto poterci vivere.
Il Moro giocherà col greco (anch'io lo facevo durante i tempi del liceo ottenendo l'insufficienza) per tutta la durata della lettura, coniando termini geniali e pieni di significato.
La narrazione si apre proprio con Tommaso Moro che, giunto a Bruges "avendo di recente l'invittissimo re d'Inghilterra Enrico VIII avuto quistioni di non poca importanza col serenissimo Carlo principe di Castiglia", avrà modo di incontrare prima Pietro Gilles, "un giovane anversese di gran riputazione", e poi il protagonista di questa sua storia, Raffaele Itlodeo (da υθλος «ciarla» e δαιειν «distribuire», «distributor di ciarle»).
Raffaele viene presentato al Moro dall'amico Pietro come un instancabile viaggiatore il quale, per sua stessa "bramosia di andar osservando il mondo tutto", si unì ad Amerigo Vespucci non abbandonandolo mai se non durante l'ultimo e più interessante viaggio, quello verso l'isola d'Utopia. 
Secondo le anticipazioni di Pietro, infatti, non appena sbarcarono "cercò e ottenne a viva forza dal Vespucci di far parte anch'egli di quei ventiquattro che rimasero laggiù, nel castello, all'estremo limite dell'ultimo viaggio".
Tommaso quindi, incuriosito dalle parole dell'amico, di gran voglia accetta d'essere ufficialmente presentato ad Itlodeo, con la speranza di poter approfondire una così interessante storia e apprendere qualcosa di nuovo dai suoi viaggi.

"Questo mi raccontò Pietro, onde io molto lo ringraziai della cura da lui messa a procurarmi di conversar con tal uomo, col quale sperava che mi sarebbe stato gradito parlare. Poi mi rivolsi a Raffaele e, salutatici l'un l'altro e scambiati quei convenevoli soliti fra forestieri in un primo incontro, ci volgemmo verso casa mia e ivi, nel giardino, ci ponemmo a conversare su di un mucchio di zolle erbose a mo' di panca."

In questa prima parte (libro primo) dell'opera, Tommaso Moro discute insieme a Pietro Gilles e a Raffaele Itlodeo dei temi più delicati e politicamente importanti che affliggono l'Inghilterra del XV secolo, dando vita a discussioni di un certo peso sociale come il ruolo della pena di morte nell'arginare i crimini o l'abolizione della proprietà privata.
Raffaele, dando prova delle sue conoscenze frutto di mille esperienze, viene quindi invitato dallo stesso Moro a mettere la sua vita al servizio della politica inglese, da uomo capace ed evidentemente in grado di gestire la cosa pubblica. Ne scaturisce, dal contrasto verbale che ne segue, un'interessante conversazione sul ruolo del filosofo-re all'interno dello Stato, abbracciando una sempre attuale citazione di Platone:

"Non c'è dubbio che Platone previde chiaramente che, a meno che i re non studino filosofia, non si darà mai il caso che approvino del tutti i consigli di chi fa il filosofo, così imbevuti come sono di malvagie opinioni e corrotti sin da bambini [...]
Credete voi che, qualora io proponessi a qualche re delle sagge decisioni, sforzandomi di strappar dal suo cuore quei semi perniciosi di mali, non mi caccerà via immediatamente o non mi renderà oggetto di scherni?"

E così Itlodeo continua sulla necessità del filosofo di non dover prendere parte alle ingiustizie e alle opere empie della politica, proseguendo la sua vita sereno e beato, distaccandosene:

"E' come se vedessero, dice, la gente sparsa in una piazza bagnarsi a un acquazzone dietro l'altro, e non riuscissero a persuaderla a lasciar la piazza e rientrare in casa; in tal caso, sapendo che niente otterrebbero a uscire loro se non di inzupparsi insieme con gli altri, se ne stanno chiusi in casa: quando non possono mediare all'altrui pazzia, si devono contentare di starsene al sicuro almeno essi."

La discussione prosegue e l'amichevole alterco fra i due crea l'anello di congiunzione fra il primo e il secondo libro, libro in cui Raffaele narra con precisione le sue esperienze su Utopia, descrivendo con dovizia di particolari anche la struttura sociale e amministrativa di un così affascinante luogo.


Politica e burocrazia

L'isola di Utopia consta di 54 città, "ampie e magnifiche, quasi tutte uguali per lingua, usanze, istituzioni e leggi". La capitale, Amauroto (dal greco «αμαυρος», «ignota»), potremmo immaginarla come la sede del parlamento e qui, ogni anno, tre cittadini fra i più anziani e saggi di ogni città si riuniscono per "trattar degli affari comuni dell'isola".
Ogni città è amministrata e guidata da un senato, composto da filarchi e protofilarchi. Ogni filarco viene eletto ogni anno da 30 famiglie e, raggiunta la quota di 10 filarchi, si elegge un protofilarco (annuali anch'essi, ma raramente vengono destituiti). Raggiunta la quota di 200 filarchi si elegge un principe (a vita) fra quattro candidati scelti dal popolo; spetterà poi ai filarchi decretare, giurando imparzialità, chi fra i quattro candidati merita l'elezione.
Al senato "nazionale" quindi si lega anche un senato "comunale" che si riunisce (raramente) per decidere sulle questioni locali più urgenti.


La famiglia e il lavoro

La famiglia in Utopia è l'istituzione più importante, come fondamento delle successive. Ogni famiglia "non è fatta di meno di 40 persone, tra uomini e donne, oltre a due servi della gleba, e a capo vi son messi padri e madri di famiglia gravi e attempati." Il numero delle nascite viene sapientemente controllato affinché una città non si popoli troppo o, al contrario, sia costituita da poche unità. E' necessario dunque che "nessuna famiglia abbia meno di 10 o più di 16 giovani ed è facile serbare questa misura, col trasferire presso famiglie che ne manchino i giovani in soprannumero di famiglie troppo fornite."
Ogni anno da ogni famiglia tornano in città 20 componenti di essa, alternandosi agli altri 20 che hanno appena concluso i 2 anni di campagna. Questo lavoro d'alternanza serve ad istruire coloro che giungono per la prima volta dalla città alla campagna, permettendo nel frattempo ai 20 che sono rimasti di completare il secondo anno, per poi ritirarsi in città, e così via. Oltretutto, tale importante gioco di ruoli evita che qualcuno "sia costretto contro voglia a continuare più a lungo una vita troppo aspra, tuttavia molti, che son presi naturalmente da passione per tutto ciò che è campagna, ottengono di restarvi per più di un anno."
Ognuno svolge il proprio ruolo, sia che si tratti di qualsiasi lavoro consono alla vita di campagna (trasportare legna, coltivare la terra, allevare animali, ecc.) sia che si tratti di mestieri differenti o politicamente importanti come quelli dei filarchi o protofilarchi (i quali, a loro volta, stanno bene attenti che "nessuno se ne stia senza far nulla, in braccio alla pigrizia, ma attenda al suo mestiere con sollecitudine, senza però stancarsi, come una bestia da soma, a lavorare ininterrottamente dalla mattina per tempo fino a sera tardi [...]").
Tutto viene prodotto in abbondanza in sole sei giornaliere ore di lavoro. Ogni famiglia scambia con il resto degli abitanti le proprie abbondanze dando luogo ad intrecci ed equilibri fra rapporti del tutto indissolubili e fondati sulla reciproca condivisione di materie prime.
Non so se avete notato sopra, ho scritto sei, non sette o quattordici, ho scritto sei. Sei ore di lavoro giornaliere. Tre ore prima di mezzogiorno, pranzo, pennichella, altre tre ore, fine. Le ore rimanenti della giornata possono essere gestite a proprio piacimento dagli abitanti di Utopia che raramente si danno all'ozio e che spesso e volentieri impiegano il loro tempo libero in studi letterari. "I dadi non sono nemmeno conosciuti e così tutti i giochi di tal fatta, insipidi e rischiosi". Si usa infatti tenere lezioni pubbliche durante la giornata a cui tutti possono liberamente prendere parte. Coloro che poi mostrano meriti e attitudini particolari allo studio vengono esclusivamente indirizzati all'istruzione secondo le loro inclinazioni.

"Ma a questo punto bisogna esaminar più precisamente una quistione, perché non cadiate in errore. Potreste infatti immaginare, pel fatto che stanno al lavoro 6 ore al giorno solamente, che ne debba seguire qualche scarsezza delle cose necessarie. Ben lungi da ciò, anzi queste 6 ore sono non solo sufficienti, ma anche di troppo per produrre in abbondanza tutto ciò che si richiede, sia pei bisogni che pei comodi dell'esistenza; e anche voi lo comprenderete, riflettendo fra di voi quale gran quantità di gente viva senza far nulla presso gli altri popoli. Anzitutto quasi tutte le donne, che sono la metà di tutto l'insieme o, se in qualche luogo le donne si danno da fare a lavorare, ivi per lo più gli uomini russano al loro posto. Oltre a ciò, dei sacerdoti e dei cosiddetti religiosi, oh che gran folla! E che sfaccendati! Poniamo ora tutti i ricchi, specie i proprietari di poderi, che chiamano comunemente gentiluomini e nobili; poi mettete nel numero il loro servidorame, cioè tutta quella colluvie di spadaccini e di scioperati; aggiungete infine quei robusti e gagliardi pezzenti, che coprono col pretesto di malattie la loro indolenza, e vedrete che molto più pochi che non credevate son coloro dal cui lavoro risultano le cose tutte di cui si servono i mortali. Ponderate ora dentro di voi fra questi stessi quanto pochi siano quelli che si occupano di un mestiere indispensabile, se è vero che, dove tutto si misura col denaro, si devono necessariamente esercitar molte arti del tutto senza senso e superflue, a servizio soltanto del lusso e del capriccio."

L'economia

Abbiamo già poco sopra asserito che in Utopia tutto viene prodotto in abbondanza e che ogni famiglia mette a disposizione delle altre famiglie i frutti del proprio sudore. Tali scambi e gentilezze fondano la loro naturale esistenza sul principio del benessere comune, del tutto disinteressato, e a favore compiuto ne corrisponde un altro sempre figlio del medesimo spirito d'assistenza reciproca.

"E per qual motivo gli si dovrebbe rifiutare qualcosa, quando c'è abbondanza di tutto non solo, ma non c'è paura che qualcuno chieda più del bisogno? E perché supporre che possa chiedere il superfluo chi è sicuro che non gli mancherà mai nulla? E' la paura di venir a mancare, evidentemente, che rende bramosi e rapaci, e ciò è dei viventi di ogni sorta, mentre, fra gli uomini, ciò è prodotto soltanto dall'orgoglio tirannico, che mette la propria vanagloria nel superare gli altri ostentando il superfluo."

Non esistono denaro, spiccioli o cartamoneta. L'oro viene trattato come un metallo qualsiasi, anzi, meno puro e meno nobile degli altri metalli e fin da subito la viene istruita a rigettarne qualsiasi forma. Reputo superflua ogni mia considerazione e preferisco anche stavolta lasciarvi a delle più che eloquenti citazioni.

"Intanto hanno l'oro e l'argento, donde quella si fa, in conto tale che nessuno li apprezza più che non richieda la natura. E chi non vede quanto per natura sono inferiori al ferro? Tanto che, senza questo, per diana, i mortali non possono vivere, né più né meno che senza fuoco o senz'acqua, mentre intanto all'oro e all'argento nessuna utilità ha concesso la natura, di cui non possiamo agevolmente fare a meno se non fosse che la follia umana ha dato valore alla rarità; ché anzi, come madre affettuosissima, ha messo all'aperto ciò che ha di meglio, come l'aria, l'acqua e la terra stessa, mentre ha riposto assai lontano le cose vane e di nessun vantaggio. Questi metalli dunque non vengono da essi chiusi in qualche torre; se lo facessero, il principe e il senato potrebbero cadere in sospetto, tanta è la stoltezza dello zelo popolare, di ingannar con uno stratagemma il popolo per godere con essi di qualche vantaggio personale. E se ne fabbricassero coppe e altri oggetti di tal genere lavorati da orefici, se venisse mai una circostanza tale da doverli rifondere per dar le paghe ai soldati, comprendono che di mal animo se li lascerebbero togliere, una volta che han cominciato a trovarvi gusto. Per ovviare a ciò han trovato un mezzo che ben s'accorda con le altre loro istituzioni, ma da quelle di noi altri, che facciamo sì gran conto dell'oro e lo teniamo chiuso con tanta cura, è lontano le mille miglia e perciò non è credibile se non per chi ne fa esperienza. Poiché, mentre mangiano e bevono in vasi di creta o di vetro, bellissimi senza dubbio, ma di nessun valore, dell'oro e dell'argento, non negli alberghi comuni soltanto, ma anche nelle case private, fanno comunemente vasi da notte o destinati agli usi più vili, e inoltre si formano con gli stessi metalli anche catene e grossi ceppi per legare schiavi. In ultimo a quelli resi infami da qualche delitto pendono dagli orecchi cerchietti d'oro, oro cinge le dita, collane d'oro circondano il collo e infine anche il capo è stretto in oro. Così in tutti i modi cercano presso di loro di far avere in ispregio l'oro e l'argento, e in tal modo si ottiene che questi metalli, che gli altri popoli in genere non si lascerebbero strappare con minor dolore delle proprie viscere, se anche, presso gli Utopiani, qualche circostanza richiedesse di portarglieli via tutti in una sola volta, a nessuno parrebbe di aver subìto la perdita di un soldo solo."

Dopo il suicidio d'ogni orafo, giungiamo all'apoteosi della verità con il seguente passo:

"Ugualmente stupiscono che l'oro, di sua natura così inutile, sia ai nostri giorni, su tutta la terra, stimato tanto che l'uomo, in grazia del quale e a cui vantaggio ha ottenuto quel valore, venga stimato molto meno dell'oro stesso: talché un qualsiasi zoticone, che può avere meno intelligenza di un ceppo ed essere disonesto non meno che sciocco, tiene tuttavia in servaggio molti uomini e sapienti e buoni, e ciò pel solo fatto che ha avuto in sorte un buon monticello di monete d'oro."

Ci tengo a sottolineare che Thomas More è nato nel 1478 e non sapeva cosa diavolo fosse Mediaset o che, circa 458 anni dopo, sarebbe nato un tale Berlusconi Silvio...

Gli schiavi e le leggi

In Utopia ogni cittadino nasce libero e uguale di fronte alla legge, sia che esso sia figlio di schiavo o preso come schiavo da altri popoli. Nemmeno i prigionieri di guerra meritano un destino così atroce se non coloro che, disobbedendo alle leggi della comunità, si rendono diretti responsabili e artefici del proprio destino.
I cospiratori dello Stato, gli ambiziosi, i tiranni o coloro che semplicemente hanno tentato di spezzare le salde redini della giustizia comune sono destinati ai lavori forzati, per tutta la vita. E' in aggiunta vietato prendere decisioni politiche al di fuori del senato.
Gli alti funzionari dello Stato non sono esenti dal rispettare le medesime, pochissime leggi del popolo affinché non "ve ne siano due, di giustizie, una a piedi, carponi, che conviene al volgo e in nessun luogo può saltar le sbarre e da ogni parte è legata da molte catene; l'altra, la virtù dei prìncipi, la quale, com'è più augusta di quella del popolo, così è di gran lunga più libera, talché a lei è lecito tutto ciò che le piace."
Gli Utopiani non sono avvezzi alle scartoffie della burocrazia e meccanismi semplici, basati sul mero rispetto reciproco e sul lavoro comune, regolano i rapporti fra cittadini e fra Stati. Non esiste un esercito e, in caso di attacchi esterni, è il popolo stesso a difendere la propria terra. Gli Utopiani infatti rigettano qualsiasi conflitto armato. Per questo motivo non sono mai i primi ad avanzare contro i popoli limitrofi, ma si limitano a salvaguardare i propri territori durante eventuali guerre.

"Vi ho descritto quanto più schiettamente ho potuto la forma di quello Stato, che io certo giudico non soltanto ottimo, ma l'unico che possa a buon diritto attribuirsi il nome di repubblica. Altrove, si sa, mentre si parla ovunque dei diritti dello Stato, non si occupano che di quelli privati; qui, invece, dove non esiste nulla di privato, si occupano sul serio delle faccende pubbliche."

Vado a vivere in Utopia?

No. Personalmente preferirei di no.
Volendo fare i pessimisti, considerando il termine "utopia" attraverso l'esclusivo significato di qualcosa di irrealizzabile e fuori da ogni logica, non c'è nemmeno il rischio che si possa giungere ad un modello di società simile.
Volendo fare gli ottimisti, parlando di "utopia" come un insieme di progetti tanto desiderabili quanto realizzabili, è meglio che tutto ciò non accada.
A fine libro, tentando di trarre qualche idea dalle mie letture, sono giunto alla conclusione che, per quanto i canoni d'Utopia siano alquanto lontani dai nostri, è bene che non si realizzino.
La calma piatta in cui scorre la vita degli Utopiani fa di loro degli automi programmati, in grado di fare solo del bene, ma non perché inteso come tale (e quindi frutto di ragion pratica), ma perché inconsapevolmente e meccanicamente riprodotto. 
Gli Utopiani non conoscono direttamente i benefici del male e, per reputarsi soggetti pensanti, occorre incontrarlo direttamente così da saper discernere con senno fra ciò che va fatto e ciò che va evitato.
La presunta abbondanza e la soddisfazione delle mere necessità primarie affondano Utopia nella più noiosa e monotona staticità sociale. Personalmente non riesco a vedere barlumi di progresso in fondo alla bastevole vita che conducono gli Utopiani. Voglio sia chiaro, però, che non parlo dello stesso progresso incondizionato, sfrenato e figlio del superfluo che ha reso le nostre vite un'accozzaglia d'eccessi; mi riferisco al progresso bianco, candido, quello della medicina e della ricerca, quello basato sul naturale istinto dell'uomo di migliorare le proprie condizioni di vita, quello che mi permette di sfruttare la luce del sole per produrre energia e i cavi ethernet per diffondere le mie idee. La soluzione ultima dei problemi legati alle attuali società non credo risieda nell'inconsapevole cancellazione di ogni male, ma nella cosciente capacità d'ognuno di noi di saper scegliere ciò che è bene, implicando, affinché si realizzi tale principio, l'esistenza stessa di un male.
La contraddizione di fondo è proprio questa. Realmente non è possibile che occorrano le limitazioni delle leggi intese come riduzioni delle libertà per credere di poter, come conseguenza diretta, estendere quelle stesse libertà. In termini semplici sarebbe come tirar fuori acqua da una vasca con l'idea di riempirla. Detto da Benedetto Croce: 

"La libertà si dibatte contro l'autorità, e pur la vuole, e senz'essa non sarebbe; e l'autorità reprime la libertà eppure la tiene viva o la suscita, perché senz'essa non sarebbe [...] Se la parola "libertà" sorride all'animo, quella di "autorità" lo rende serio e severo. Il torto è solo degli esclusivi celebratori della forza o dell'autorità e del consenso o della libertà che dimenticano che il termine da essi escluso è già incluso nell'altro accolto perché suo correlativo."

E allora? Che fare? Aspettare la fine dei giorni? E' una contraddizione di fondo irrisolvibile, o meglio, a mio parere, utopicamente risolvibile con la raggiunta consapevolezza di ognuno di noi di operare per il bene ragionato escludendo il male scellerato. Chiudo ancora con Benedetto Croce:

"Tutte le cognizioni giovano; ma nessuna cognizione mi dirà mai che cosa io debba fare, perché questo è unicamente il segreto dell'esser mio e la scoperta della mia volontà. Sempre che si mette il problema nella forma sovrapersonale e oggettiva: «Che cosa deve fare il mondo? Che cosa deve fare l'Italia?», lo si mette in una forma astrattamente bensì discettabile ma praticamente insolubile, perché che cosa deve fare e farà il mondo, lo sa e saprà esso mondo e non io, che cosa deve fare e farà l'Italia, lo sa e saprà essa Italia e non io. La forma giusta è invece: «Che cosa debbo fare io?»."
mercoledì 4 luglio 2012 9 commenti

Facebook e gli (A)social Network

Due mattine fa, subito dopo essermi svegliato, ho stranamente avuto abbastanza volontà da poter iniziare a pensare prima ancora di lavare via la notte dalla mia faccia. E' una cosa che di rado faccio considerando che ho la stessa vitalità di una pianta grassa e il mio primo obiettivo è quello di svuotare la vescica. 
Mi vergogno un po' a dirlo ma, sempre due mattine fa, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata "social network". Ho ripensato a Facebook, al mio profilo, alle mie notizie, ai miei tag, alle mie foto, alla mia bacheca, ai miei amici e al mio rapporto con il mondo virtuale. Essendo ancora a digiuno sono andato fino in fondo credendo che il mio stomaco potesse rivoltarsi a suo piacimento senza che io rischiassi di rimettere. Qualcosa, però, ho rimesso, ed è stata la mia identità.
Quando mi sono iscritto al Social non credevo che potesse essere così coinvolgente da calpestare la mia riservatezza e la mia discrezione. Voglio dire, non me ne sono nemmeno accorto mentre ogni tag, ogni aggiornamento di stato ed ogni foto riduceva e minacciava la mia privacy. Perché in fondo il rischio è proprio questo. Facebook connette i punti più disparati del globo, connette fra loro vite, sorrisi e pensieri riducendo le distanze fra la gente e le loro sfere personali. Se utilizzato con senno e distacco, limitandosi al mero scambio di idee e notizie, può essere un'arma favolosa contro i silenzi e le falsità di media e giornali. E non posso che riferirmi al ruolo che Facebook stesso ha giocato durante la primavera araba; parlo quindi dell'abbattimento di barriere che, realmente, limitavano la libertà d'espressione di moltissima gente, ma che, virtualmente, crollando, hanno permesso loro di diffondere un urlo di rivolta figlio della raggiunta consapevolezza dei propri diritti. E questa per me si chiama comunicazione, quasi come bisbigliare all'orecchio del compagno di banco la risposta all'ultima domanda del test che gli salva la carriera. Bisbigliare la risposta errata, però, è da un lato viscido, dall'altro (per chi la risposta errata invece la recepisce), è non solo rischioso ma può anche distorcere la propria personalissima visione della realtà. Ecco cos'è stato Facebook per me. Tantissima gente ha bisbigliato soluzioni errate alla mia esperienza virtuale; io le ho recepite, fatte mie e considerate vere. Non bisogna infatti dimenticare che dietro ad un monitor, dietro ad una tastiera e dietro i cavi di rete, esistono persone in carne ed ossa, fatte di abitudini, hobby, ragioni, idee, scellerataggini, passioni, vizi e tanto altro ancora, gli stessi spiriti che danno anima e voce ai propri profili virtuali. Con tutto ciò che ne consegue. Vite quindi da affrontare e filtrare secondo la tanto vecchia quanto buona legge del "non accettare caramelle dagli sconosciuti". Purtroppo per noi iscritti ai Social il vero cruccio, la vera dannazione e il principale responsabile del dissennato scambio d'informazioni è la COMODITA'. Nei Social le vite reali delle genti del globo si intrecciano con una facilità tutt'altro che reale (virtuale appunto), trascinando con sé alle porte dei "perbene" il lerciume e la feccia dei "dannati".
Il senso dell'amicizia si svaluta in una maniera che quotidianamente è a dir poco impossibile immaginare. Hai a disposizione milioni di iscritti, puoi cercarli, e basta un "click" per intrattenere con loro un rapporto basato sul superficiale senso dell'apparire e non dell'essere. E fanno solamente numero, massa e matassa insieme agli altri. Una "richiesta d'amicizia", partita, accettata e stabilita. Realmente è un po' come fermare il primo passante che ci capita di fronte e chiedergli "posso essere tuo amico?". Oddio, sarebbe un mondo felice se le intenzioni dei nostri rapporti fossero sempre le più alte e nobili. Ma non è questa la realtà che viviamo e il virtuale a volte sembra occultarla, in silenzio, senza farsi accorgere. Passare al "lato oscuro" dei Social riesce ancor più facile di quanto non sia stato per Anakin Skywalker allearsi con Darth Sidious. Gli imbarazzi che realmente crea il virtuale, inoltre, non sono percepibili. Ho intrattenuto intere conversazioni tramite web con gente che poi, in carne ed ossa, non ha avuto nemmeno il coraggio di lanciarmi un saluto. Attraverso i Social non ci si guarda in faccia e questo glissa la sincerità che si salda tramite un rapporto nato a quattrocchi. 
Le lame a doppio taglio di Facebook sono poi  così tante e occulte che smussare gli angoli è la prima cosa da fare. Le funzioni ci sono tutte e devo dire che gli amministratori (Zuckerberg, padre di Faccialibro in primis) hanno reso la circumnavigazione dell'etere abbastanza sicura a noi utenti. Cos'ho deciso di fare quindi? Ho bloccato tutto, eliminato tutto, ristabilito la discrezione che sempre è appartenuta alla mia persona reale ma che si stava perdendo nel mio ego virtuale. Ho cancellato, annientato, disintegrato persone che non rispondevano ai canoni naturali e basilari per cui si potessero considerare "miei amici"; l'ho fatto non secondo il COMODO filtro virtuale, ma secondo lo spietato occhio REALE.
Mi sono sorpreso di me stesso. Non mi ero nemmeno reso conto di quanto il mio Social stesse diventando Asocial perché opposto ai miei canoni d'intendere e valutare la società che mi circonda. 
Noto con dispiacere però che, nonostante io abbia imparato a fare mia tale lezione, c'è tantissima altra gente che fora la sfera della propria riservatezza pur d'ottenere il consenso e l'assenso dei propri followers. E questo è il primo passo verso la massificazione delle nullità...


Aggiungo (per quanto riguarda la questione "primavera araba e social network") quest'utilissimo documento: 

 
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