mercoledì 25 giugno 2014 4 commenti

Nettuno se ne fotte

Il caos. 
Auto, bus, moto, rifiuti urbani e suburbani, l'aria pesante d'un via vai d'anime senza pace, seduto ai piedi del Nettuno mentre San Petronio dall'alto soddisfatto mira l'opera di Dio.
"Un caffè per favore, anzi, due. Me li porti a distanza di venti minuti l'uno dall'altro, di modo che l'amaro in bocca non abbia il tempo di svanire."
Una vecchietta agghindata come una giovane donzella. Fa capolino lungo la strada, attende al semaforo impaziente che scatti il verde. Scatta. A stento riesce a gestire un paio di tacchi scomodi quanto la morte d'un marito troppo severo ed eccitata per un mondo che tardi s'apre di fronte ai suoi occhi va alla ricerca d'un po' di tarda gioventù. Si smarrirà fra le braccia d'un aitante furbastro squattrinato, disposto a sacrificare il proprio tempo pur d'ereditare i denari infelici della sua compagna.
Un'allegra combriccola, compagni di classe e di liceo. Si godono le piacevoli leccornie dell'incoscienza, mentre i propri maestri si sbracciano e si sgolano richiamandoli all'attenzione perché la vita non perdona. Ma niente, non ne vogliono sapere, troppo gustoso è il piacere di lasciarsi trasportare dalle onde, ridendo e scherzando, senza che la legge li incateni.
Faccio un bel respiro e inalo fumo di tabacco, che in forma di cenere si sparge sul mio tavolo e in forma d'aria malata prende il volo verso il cielo danzando con il vento.
Una coppia insolita accompagna per la via un bambino malconcio, vestito di stracci e maleducato ancor prima che la vita lo istruisca ad esserlo. Bestemmiano un gratta e vinci sfortunato, come se s'aspettassero che davvero fosse giunto il loro momento. 
Un uomo ben vestito, ventiquattrore alla mano, dritto e teso come una corda di violino. Squarcia la folla disordinata camminando lungo una ipotetica linea retta, cosciente del proprio ruolo all'interno di quel formicaio d'inetti gettati nel mondo. Tornerà a casa e troverà sua moglie in groppa al suo capo. Ecco il perché di quella promozione inaspettata.
Un invisibile. Chiede qualche moneta per tirare avanti, ancora un giorno, solo un altro, prima di sperare che le cose cambino affinché tutto resti com'è.
Una ragazza, svestita col solo scopo di lasciarsi spogliare con gli occhi. Un istinto naturale, soffocato dalla ragione, un monito a ricordarci che il nostro corpo tende verso la continuazione della specie ma che la nostra mente implora l'evoluzione. 
Tacchi, clacson, manifestazioni, bici, un tonfo, cammina, avanti, indietro, a destra, gira, volta e vai, pensa, ordina, immagina, guardati, saluta, aspetta, scusami, parla, urla, piangi, ridi, baciami, un altro caffè per favore, domani, oggi, un figlio, un esame, un colloquio, soldi, affitto, senza di lei, senza di lui, pizza, panino, un gelato, la partita, gli occhiali, sculetta, chiama, rispondi, riattacca, alza il volume, muoviti, paga, improvvisa, aspettami.
"Quant'è?" - chiedo.
Ma Nettuno se ne fotte.
mercoledì 4 giugno 2014 2 commenti

Il tempo delle mele

In tempi remoti dei quali non ci è dato sapere se non che fossero alquanto distanti dai nostri, viveva un contadino da anni servo del re, stimato e onorato dall'intera regia famiglia per il suo sapere sconfinato nell'arte del raccolto. Nessuno eguagliava la sua scienza ed era abile a tal punto che Madre Natura gli donava ogni cosa, alla stregua di un'innamorata che si piega al volere del proprio sposo, concedendo il proprio fiore ammaliata dalle lusinghe e dalle carezze.
Avvenne un giorno che il re, per mero capriccio del suo animo ingordo, gli commissionasse un lavoro tanto semplice quanto bizzarro. Essendo il Sommo ghiotto di mele, ordinò che nell'orto del castello venisse piantato un albero del genere i cui frutti sarebbero stati senz'altro i più buoni degli orizzonti fino ad allora conosciuti.
Il contadino, sicuro oltre ogni misura del proprio successo, si mise subito all'opera e, facendosi spazio fra le erbacce dell'orto, pose i nuovi semi.
Trascorse un tempo indefinito, finché i primi germogli non fecero capolino fra la terra con enorme gioia del re e, ovviamente, del contadino.
I giorni si susseguirono mentre rami e foglie si moltiplicavano rigogliosi sotto la supervisione scrupolosa e paterna del loro creatore. L'attenzione del contadino per quell'albero tanto importante divenne quasi maniacale: al sorgere del sole accarezzava delicatamente la corteccia del melo come a volerlo svegliare dal sopore della notte. La sera, prima di dormire, intonava per lui delle delicate nenie accompagnandolo al riposo. Se le intemperie imperversavano, era pronto a spogliarsi dei propri indumenti per vestire l'albero. Dosava con precisione quasi chirurgica l'acqua da dargli a bere, perché non si strozzi se troppa o perché non se ne lamenti se poca. Si dimenticò perfino della propria famiglia, dedicando anima e corpo alla sua nuova creatura.
Il re tuttavia, spazientito dal tempo, intimò al contadino di portargli i frutti del suo lavoro, curioso d'assaggiare il nettare degli dei.
"Occorre fare attenzione, sua Maestà: non abbiate fretta, perché da frutti troppo giovani c'è da aspettarsi senz'altro che siano acerbi..."
I giorni si susseguirono, finché uno dei frutti dell'albero, paffuto e colorito, sembrò intimare al contadino di voler essere raccolto. Egli non si lasciò attendere e, radioso come non mai, lo raccolse con cura, lo lucidò per bene e lo portò al re su di un piatto d'argento. Sua Magnificenza, impaziente di sentirne il sapore, addentò la mela con foga, diede un paio di masticate e, paonazzo in volto, sputò via con riluttanza quanto aveva mangiato in faccia al contadino.
"Villano zappaterra! Cosa mi hai portato?!?! Se è vero che i frutti giovani hanno il sapore dell'acerbo, quelli maturi portano con sé le putride fogne del regno! Va' e portami una mela degna di questo nome, se non vuoi che ti impicchi!"
Il contadino, impaurito e con la coda fra le gambe, corse in giardino ad assaggiare gli altri frutti. Erano disgustosi. Disperato già si vide sulla forca, quando volgendo lo sguardo notò un altro alberello, molto più piccolo, poco distante dal suo. A tal punto si concentrò durante quei giorni sul suo stallone che non s'accorse del puledro selvatico che gli era cresciuto accanto. Non aveva altra scelta: colse un frutto dal melo senza padrone, orribile a vedersi, malato per via dei parassiti e ingrigito dalle intemperie, che nessuna cura o educazione ricevette se non quella che la vita per conto suo impartisce ai propri figli e che porta il nome dell'esperienza.
Consegnò la mela al re, consapevole d'essere spacciato. Sua Magnificenza ancora una volta addentò il frutto, lo masticò con gusto e in un attimo lo divorò. Poi si rivolse al contadino:
"Hai fatto un ottimo lavoro. Un car melo simile nessun regno lo avrà mai. Per questo ti nomino Sir Carmelo da Sudtirol, e il tuo nome si tramanderà alle generazioni future, affinché i figli dei figli si ricorderanno della tua audacia."
Felice del proprio successo, il contadino se ne tornò a casa dalla moglie. Memore fu del fatto che non necessariamente dall'ordine si genera letizia, ma è il disordine che forgia la tempra di chi sa cogliere i giusti frutti dell'esperienza...
 
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