lunedì 22 dicembre 2014 2 commenti

Copiadanno

Fra le solite luminarie di Natale a intermittenza s'accendono e si spengono gli affetti degli uomini e dei mezzi uomini, mentre per le amicizie, quelle vere, c'è sempre spazio, fin quando non passeranno le feste e ce ne dimenticheremo, abbandonate in uno scatolone polveroso fatto di ricordi e pastorelli. Ed ogni anno si rinnovano, le bugie e le promesse, i vecchi e i nuovi, buoni propositi per tenersi vivi e credere illusi, ancora una volta, che cambiare si può. E tutto cambia, in fondo, per restare com'è. Un nuovo calendario appeso alla parete e una foto da bambino sulla credenza, metafora dei giorni che sono passati, disegnati sui fogli delle copisterie coi nomi dei santi, ma vivi e vegeti nei ricordi di chi li ha vissuti settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, vedendosi invecchiare, crescere, cambiare.
Tra la fine e l'inizio il salto è breve, ma ad opera già iniziata attendere la fine è una lunga prova di forza e nervi. Lettere d'amore e biglietti d'auguri, anonimi, perché in fondo cosa importa, fa sempre piacere riceverli. Dedicare un pensiero, strappare un sorriso o perdersi fra occhi lucidi ma sconosciuti incrociati per pochi secondi e figli dell'attimo fuggente, in un gioco di schiaffi e carezze, di falsi contatti e scintille, nati dall'incrocio fra la curiosità donna e la scoperta uomo.
Poi mi illudo che le cose peggiori dei giorni nostri inizino la mattina con il caffè bruciato e finiscano la sera con il pattume pieno e il freddo gelido. E mentre qualcuno sceglie se essere vegetariano o di destra, se dire o fare, se mangiare o bere, se Vodafone o Tim, se bianco o nero, se Apple o Android, se le scarpe o la sciarpa, se il mare o la montagna, se Budda o Allah, in nome di Dio salvate la regina perché solo lei può ancora tenerci tristemente ancorati alla falsa speranza che la nostra realtà è davvero quella giusta.
E allora ognuno con la sua forma, calda e confortevole, per vivere per qualcosa o per qualcuno, perché senza nessuno certi fili sottili legati al senno d'identificarsi rischiano di spezzarsi, annullando, dio non voglia, quell'incantesimo che ci rende docili e mansueti e che comunemente chiamiamo ruolo, divisi fra affetti e società. Marito, moglie, figlio, avvocato, dottore, geometra, architetto, scultore, untore, pastore, istruttore, fratello, sorella, amico, zio, zia, nonna, calciatore, conduttore, panettiere, dentista, cuoco, parrucchiere, meccanico, bianco, nero, frocio, lesbica, drogato, barbone, un nome per ogni cosa che ci identifichi e ci cataloghi, perché fra di noi sia facile discernere fra bene e male.
E se volessi provarli tutti, per il gusto di non poter mai dire cosa sono o chiamarmi per nome, per non avere di me una ed una sola idea, per tirare fuori dal cilindro la faccia giusta per ogni occasione. E allora non saprai mai con chi avrai a che fare, perché sarò fuori produzione, senza stampo o marchio. Non ho mai pensato con la mia testa. Non ho mai comprato senza che non mi dicessero dove spendere i miei soldi e non ho deciso io con quale regalo fare bella figura.
Poi mi rileggo, già scritto. Poi mi sento parlare, già detto. E allora mi riguardo, a capodanno un anno dopo, in un film già visto, e ho come l'impressione che di questa vita me ne abbiano data una copia...
sabato 6 dicembre 2014 2 commenti

Bo...nonsai

C'è qualcosa di mistico o quasi surreale fra i tuoi rami e le tue foglie che immobili osservano senza guardare quello che accade intorno a noi, fatti di pelle ed ossa, mentre si muovono emozioni e sentimenti. Ne sembri così escluso che è difficile dire se l'incoscienza ti è stata donata come la più nobile delle concessioni o se è la tua più grande maledizione. Perché niente ti tocca o ti sfiora se non qualche raggio di luce che timido fa capolino fra le tende mentre tu ne assorbi con cupidigia insaziabile linfa vitale. Ti ho visto a colazione, impassibile. Ti ho rivisto a cena, sempre lì, in un legnoso e contorto turbinio di rami e fuscelli, quasi come se l'attimo t'avesse immobilizzato mentre stavi per dire qualcosa, con le parole in gola e le foglie tese a gesticolare.
E se non ti dessi più acqua? E se finalmente ti costringessi a parlare e a soffrire, senza che nessuno ti senta? Così, solo per il gusto perfido di scoprire che sotto quella corteccia scorre succo d'anima, vittima tanto quanto lo siamo noi uomini delle fortune e delle disgrazie della vita. Ma tanto a te non importa, basta poco perché un altro seme venga piantato, senza fronzoli o regali di compleanno, senza inviti o anniversari, senza guerra né pace, tutto secondo natura seguendo una logica talmente razionale da rendere semplice ogni cosa.
Perché non la smetti e ti metti in gioco? Esci dal torpore della terra, strappa via le tue radici e dammi una mano. Non puoi avere altra acqua. No, non ti sposto, stai bene sul tavolo e la luce arriva lo stesso. Non la smetto di fumare in casa, fuori fa freddo e piove, non hai né il naso, né i polmoni, di cosa ti lamenti? Ho visto sai, che le tue foglie stanno ingiallendo. No, non la spengo la TV. Ma poi se ti dà così fastidio perché non me lo dici? Perché continui a guardarmi e non ti esprimi? So che preferivi che ti comprasse quel caro vecchietto vegetariano, pensionato, dalla casa enorme e con la passione per la botanica. Ti ho portato a casa mia, va bene? Rispondimi, rispondimi e sii sincero, vorresti andare via? Fallo. Esci dal vaso di ceramica e scappa via. Non riusciresti a vivere un giorno col mondo freddo che c'è fuori. Devo pure starti a sentire, non mi dai nemmeno frutti, a cosa mi servi?
Giorno e notte, giorno e notte, mentre il sole e la luna si alternano, mentre gli eventi, le sensazioni, i dubbi, i timori e le gioie si susseguono e attraversano le carni fino a raggiungere l'anima di noi uomini, così lontani dalla tua natura implacabile e mite, mentre lungo i rami, la corteggia e le foglie scivola via l'acqua, attraversa la terra e giunge ai tuoi piedi, mentre tutto si rincorre e in un capitombolo inciampa fra le incomprensioni, mentre la vita passa fra le rughe d'espressione, tu, ancora placido, te ne stai a guardare. Fermo.
venerdì 28 novembre 2014 1 commenti

L'amore ai tempi di Catfish - di Simone Varrasi

Dato che Sturamente si propone d'essere un contenitore di idee il cui unico scopo è il libero scambio di pensieri ed esperienze, vi propongo un articolo scritto da un mio caro amico, collega di dissertazioni sui molteplici aspetti della psicologia umana. Apprezzo sempre il suo punto di vista e spero che tornerà presto a scrivere fra le pieghe e le pagine virtuali del blog. Felice lettura.

L'AMORE AI TEMPI DI CATFISH

Passatempi discutibili.

Ebbene sì, lo ammetto: sarà che mi rilassa, sarà che d’estate non ho molto da fare, sarà che forse sono destinato a ingrassare mangiando pop corn su un divano, ma… mi piace guardare MTV.
Durante il mio zapping quotidiano, in particolare, ho seguito più volte il programma Catfish: false identità, una trasmissione alla quale ragazzi e ragazze chiedono aiuto per incontrare il partner conosciuto online: sono storie in cui non c’è mai stato un incontro, mai una videochiamata, spesso neanche una telefonata, ma mesi e mesi di sola chat e al massimo un’amicizia su Facebook. Com'è facile immaginare, le puntate si concludono quasi sempre col protagonista che scopre di essere stato raggirato e con la persona amata che non era chi diceva di essere.
Puntata dopo puntata la mia curiosità cresceva, finché non ho potuto fare a meno di chiedermi: com'è possibile, per certe persone, innamorarsi online di qualcuno che non si è mai visto? È una cosa che può succedere a tutti, o ci sono soggetti predisposti? Ci sono dei meccanismi particolari che si attivano, oppure queste storie sono paragonabili agli innamoramenti “di presenza”?
Incredibile a dirsi, ma questi dubbi mi hanno spinto giù dal divano: sentivo la necessità di trovare delle risposte. Ed ecco a voi cosa ho scoperto…

In principio era la disinibizione…

Ma che cosa ci succede quando siamo online?
Un suggerimento arriva dall'ormai lontano 2004, in un articolo scientifico pubblicato dal professor John Suler sulla rivista CyberPsychology & Behavior: nel momento in cui siamo online, i filtri che di norma caratterizzano la nostra comunicazione sociale si assottigliano, spingendoci a essere più diretti e spontanei; in altre parole, collegandoci a un ambiente virtuale ci disinibiamo.
Questo effetto di disinibizione segue regole precise ed è influenzato da diversi fattori, ma soprattutto non agisce per tutti allo stesso modo. La disinibizione, infatti, può prendere una direzione negativa caratterizzata da comportamenti violenti, antisociali e offensivi (pensate alla pagine Spotted…), oppure una direzione positiva caratterizzata da fiducia, apertura emotiva e desiderio di confidarsi.
Credo che questa sia una premessa fondamentale per la comprensione delle storie di Catfish: la persona che si disinibisce e che imbocca la cosiddetta direzione positiva inizia a parlare di sé e dei propri problemi, confessa all'altro pensieri che forse non aveva mai detto a nessuno, si sente al sicuro da giudizi e cattive figure. 
Nulla vieta, però, che nel frattempo l’interlocutore abbia imboccato la direzione opposta, ossia la disinibizione negativa…

“È tutto nella mia testa”.

Il soggetto, oltre a disinibirsi, sente il bisogno di rappresentarsi l’Altro virtuale e di dargli un’identità; è come se si chiedesse: con chi sto parlando? Che carattere ha questa persona?
Come spiega John Suler, il particolare contesto della chat online provoca la sensazione che la propria mente sia fusa con quella del partner, arrivando a percepire quest’ultimo come una sorta di voce interiore. Tuttavia, non avendola mai sentita davvero, è inevitabile che questa voce sia ricreata arbitrariamente, attingendo dalla fantasia o dai ricordi.
Ma proviamo a immedesimarci: dopo essere entrati in contatto con qualcuno, cercheremmo di ricostruire la sua personalità, inizieremmo a riflettere sulle motivazioni che l’hanno spinto a dare una certa risposta piuttosto che un’altra, formuleremmo ipotesi, immagineremmo una storia e un carattere al fine di ottenere la rappresentazione più coerente possibile. Ma continueremmo a lavorare di fantasia e, soprattutto, di proiezioni: la scelta dei suoi tratti e delle sue caratteristiche avverrebbe sulla base di ciò che desidereremmo vedere, e non sulla base di ciò che realmente c’è. Complice la disinibizione positiva, alla fine avremmo ricostruito il partner che più soddisferebbe le nostre aspettative, quello che più verrebbe incontro ai nostri bisogni.
Peccato, però, che il processo si riveli del tutto arbitrario, portando alla creazione di un vero e proprio personaggio inventato.

Differenze individuali.

A questo punto è facile capire che un partner modellato a immagine di attese e desideri eserciti un’attrazione su chi l’ha prodotto.
Tuttavia, come starete già pensando, è lecito ipotizzare particolari caratteristiche di personalità in chi si abbandona completamente all'effetto di disinibizione e in particolare all'introiezione solipsistica: non tutti, infatti, accetterebbero di parlare con uno sconosciuto che rifiuta di farsi vedere in webcam, così come non tutti fantasticherebbero sull'identità di qualcuno fino al punto di innamorarsene.
Ricapitolando: alla base delle storie di Catfish c’è un fenomeno comune a tutti coloro che usano Internet, ossia l’effetto di disinibizione; questo processo, come abbiamo visto, prevede anche la tendenza a ricostruire mentalmente il soggetto virtuale con cui abbiamo a che fare: tale meccanismo, tuttavia, sembra avere un impatto variabile da soggetto a soggetto, probabilmente a causa di specifiche storie di vita o a causa di particolari variabili di personalità.
Rimane un ultimo punto da affrontare. Possiamo stabilire un paragone tra le storie di Catfish e gli innamoramenti “di presenza”?

L’amore online e offline. 

Giovanni Gentile, in Frammento di una gnoseologia dell’amore, presenta l’amore come un processo che ricostruisce attivamente la realtà trasformando le caratteristiche del partner in una rappresentazione idealizzata che risponde ai nostri desideri, indipendentemente da quanto questa aderisca al vero.
Nel cyberspazio il partner è ricostruito su misura per effetto di disinibizione e per mancanza di informazioni; nelle interazioni reali, l’innamoramento fa sì che esso sia visto sotto una luce ideale, spesso poco aderente ai fatti.
Non sono meccanismi con analogie interessanti?
Forse avere a che fare con persone reali può darci più garanzie, ma l’amore, indipendentemente da come e da dove nasca, ci espone al rischio e all'incertezza: non possiamo conoscere del tutto chi abbiamo di fronte, neanche un amico di vecchia data, e al tempo stesso non possiamo escludere a priori la possibilità di incontrare una persona speciale nei luoghi più improbabili, sia essa la sala d’attesa di un dentista o una sessione di Chatroulette.
In ogni caso, un utile accorgimento potrebbe essere il diffidare della gente che non ci mette la faccia, sia negli impegni che nella webcam. E magari il prendere tempo, aspettando che siano i fatti a parlare e non la nostra fantasia.
Mi ritengo abbastanza soddisfatto, almeno per il momento. Posso tornare al mio amato divano…

Simone Varrasi

lunedì 10 novembre 2014 0 commenti

Il leone e la pecora

Agli albori dei tempi, un dio che esiste solo per chi crede decise di creare terre, piante predatori e prede. A causa di un forte starnuto si materializzarono i mari, figli del suo sputo. Ma il suo sterminato ingegno, sempre affamato, lo costrinse a proseguir l'opera del Creato. 
Un'unghia dal suo grosso alluce si spezzò, "luna!" disse, e nella notte buia la incastrò.
Giocando col fango, può sembrarvi un po' strano, impastò l'uomo del mondo guardiano.
Vedendolo solo a giocar col deretano, una donna affiancò a quell'impuro villano.
Felice di non giocar più col suo culo, trovò nella sua nuova compagna un posto più sicuro. Ma dio mio, se avesse saputo, fra lagne e lamenti dell'ano non ebbe rifiuto. Ma non divaghiamo, non è questa la storia, di due animali in particolare vorrei abbiate memoria.
Sempre quel dio, di fine intelletto, diede ad un essere qualsiasi quattro zampe possenti ed un regale aspetto. Dopo aver fatto una folta criniera, "leone!" urlò, plasmandolo di gran carriera.
A fine giornata, stanco del suo lavoro, si fece forza e creò un altro animale prima di trovar ristoro. Di bianco vestita e di umili sembianze, "pecora!" urlò, ma ne prese le distanze.
Per compensare la sua ingiustizia, al leone le grazie e alla pecora disgrazie, concesse al re della savana un solo giorno di gloria, prima che la morte sopraggiunga obbligatoria. Al batuffolo di lana, che non scelse il suo destino da puttana, regalò cento giorni di miseria per rimediar alla cattiveria.
E fu così che il leone in un sol giorno visse da pascià, fra i piaceri della vita e vizi a volontà. Non ebbe abbastanza tempo tuttavia per ricordarsi di quelle emozioni, che in poco tempo la cenere annullò le sue passioni. Re per un giorno, di lui questo si disse, ma a morir così presto pochi credettero sul serio che visse.
La povera pecora, sempre a novanta, la prese nel culo, ma vita ne ha tanta. Guardala imparare, si chiama esperienza, di tempo ne ha per ribaltar la sentenza. E allora coraggio, nonostante sei preda, son cento i tuoi giorni affinché qualcuno ti veda. 
Un giorno da leone, lo so, tu lo brami, ma quando sarai morto non mangiarti le mani. A pecora è ovvio, senti dolore, ma il tuo funerale non è questione di ore...
giovedì 23 ottobre 2014 2 commenti

Non ti muovere

Vorrei solo per un attimo essere amico di me stesso, accompagnarmi nel corso della giornata, portarmi fuori per un aperitivo, conoscermi, portarmi a cena, parlarmi e rispondermi per farmi un'opinione del mio modo d'essere, senza cambiarla, o sperando che duri almeno 24 ore.
Solo i fumatori possono capire cosa c'è dietro ad una sigaretta. Dal masochismo più puro al semplice gusto d'accarezzarsi le gote conciliando il pensiero e la riflessione. Ed ha lo stesso sapore di una sbronza, inebriante fino a raddoppiare i sensi e le emozioni, mentre lottano e si annullano vuotandosi su di un marciapiede o in un cesso di ceramica.
E' arrivato il freddo, quello gelido, che si fa strada fra le ossa e le irrigidisce. Puoi chiamarlo "solitudine" e porta con sé la maledettissima abitudine di imbacuccarsi con le nostalgie per sentire ancora il calore di certi piacevoli ricordi. Aprilo tu l'ombrello mentre piove, mettili tu i pantaloni lunghi sotto la neve, ficcatelo tu il cappellino di lana in testa col vento impetuoso. Io voglio prendermi un bel raffreddore, espormi senza senno ai batteri e ai microbi di un'aria artefatta e bugiarda, balorda, resa viscida dai sorrisi e dai convenevoli di circostanza. 
Perché non sempre si può dare sfogo alla corda pazza, siamo persone civili e serie. Posso offrirle un caffè? Prego, si accomodi, le chiedo scusa, se posso permettermi, faccia pure, ci penso io, mi dica, certo, non se ne curi, assolutamente sì, è stato un piacere, torni presto a trovarci, non vorrei essere scortese, mi dispiace dirglielo, baci e abbracci.
Sto cercando davvero di impegnarmi a fare le scelte sbagliate. Voglio circondarmi di problemi e farli fuori uno dopo l'altro. Qual è la cosa più giusta da fare? Andare via? Resto. Vincere? Perdo. Prendere? Lasciare. Dire? Sto zitto. Correre? Sto fermo. Ascoltare? Mi tappo le orecchie. Mangiare? Digiuno. Svegliarsi? Dormo. Lavarmi? Puzzo.
Poi mi guardo allo specchio e mi riscopro sempre uguale. E mi annoio, e mi taglio i capelli, e mi raso la barba, il pizzo, i baffi, tengo le basette lunghe, rifaccio le sopracciglia. Ma nulla. Passo per la strada e colgo il mio riflesso e la mia ombra fin troppo familiari. Vorrei dargli un altro aspetto, un altro colore, un altro senso e un'altra forma. Senza mai conoscermi, perché l'unica realtà di cui ci si può fidare è il sogno malcelato di credersi sempre uguali, mentre cambiamo in un eterno divenire chiamato "punto di vista". 
Smettetela di chiamarmi sempre con lo stesso nome, è questa la mia maledizione...
martedì 7 ottobre 2014 0 commenti

Al semaforo

Rosso. Restiamo tutti a guardare la vita frenetica di chi su due o quattro ruote rincorre i propri sogni o i propri doveri, ma per quanto carburante possano sperperare non è detto che siano puntuali. Di rado passeggeri volgono lo sguardo verso di noi, falciandoci con il pensiero, disegnando le nostre vite sugli indumenti che indossiamo. Qualcuno impaziente stuzzica la sorte e attraversa senza pudore né legge lasciandoci bene intendere che non ha timor di Dio. Certi sonori "vaffanculo" si propagheranno distorti nell'aria, ma restano pur sempre ingiurie di passaggio di chi guarda e volge la sua attenzione altrove. Basta. Quanto devo pazientare ancora? Trattieni il mio entusiasmo, lascia che io me ne liberi. Dall'altro lato della strada osservo chi come me s'arresta al destino. Accanto a me il puzzo acre di chi ne ha avuto abbastanza della propria giornata si leva alto verso l'atmosfera. Mi guardo intorno perché quando si è così vicini molti sentono forte l'istinto dell'occasione che fa l'uomo ladro. Muoviti, dannato.
Verde. Finalmente i passi si susseguono frenetici per recuperare il tempo perso mentre ci guardiamo l'uno di fronte all'altro pronti all'impatto fra le anime che si mescoleranno senza conoscersi né mai avranno modo di farlo poiché solo per un attimo s'incroceranno in uno scontro di appuntamenti e impegni che nessuno di noi ha mai cercato o desiderato ma che fanno parte di un percorso che non conclude mentre tagliamo la strada a chi come noi attende che tutto sia finito per ripartire ancora una volta sbagliandosi cento altrettante volte scoprendo che il percorso giusto era quello che avevano escluso in partenza e verso direzioni opposte fra un soffio e l'altro lasciamo alle spalle noi stessi.
Giallo. Mentre gli eterni indecisi alzeranno la scarpa dall'asfalto e titubanti la adageranno nuovamente al suolo, i temerari affronteranno se stessi e galvanizzati dalla paura si godranno quest'ultima conquista della loro tenacia perché fino all'ultimo secondo la vita darà loro soddisfazione. Sbrigati, affrettati, l'attimo è lì che ti aspetta e se saprai coglierlo non puoi che gioirne. Il tempo fugge leggero come foglie secche al vento d'autunno e porterà via con sé speranze e giovinezza. Sarà allora che il passo svelto e le gambe forti ti mancheranno per affrontare la traversata. Non pensarci, stolto, e incamminati. Il prossimo incrocio è lì che t'aspetta...
mercoledì 10 settembre 2014 4 commenti

Le prime luci del mattino

Dicono che il mattino abbia l'oro in bocca. Io credo che porti con sé un sapore diverso, dolce e piacevole, che è possibile apprezzare anche a stomaco vuoto. Poi, ad essere sinceri fino in fondo, non ho mai provato a mangiare delle monete o ad ingoiare delle banconote. Mi chiedo chi l'abbia fatto.
Ritornare alla non-casa è sempre traumatico. E' come festeggiare un non-compleanno. Ci si può divertire, per carità, ma manca sempre qualcosa di intimo che scuote l'anima e la riscalda, rilassando le viscere e carezzando il cuore. Quando me ne stavo a casa tutto il pomeriggio quasi mi appiattivo all'abitudine di vedermi incastonato fra gli affetti del mio nido. Raramente mi capitava d'alzare lo sguardo per la via, talmente ci si può assuefare alle circostanze che si muore un po' ogni giorno.
Tornato a casa dopo la lunga lontananza ci ho pensato bene prima di perdere anche un solo, misero minuto o una preziosa mezz'ora. Dormire risultava quasi turpe e vergognoso. Uno scempio sprecare del tempo chiudendo gli occhi. Respiro e ingoio, non vorrei scacciare via dai polmoni l'odore di campagna. Guardo e riguardo, mi giro, ti ricordi quella volta in cui rubammo le ciliegie dall'albero? E, aspetta, ricordi quando tutte le domeniche suonavamo il campanello di baffetto?
Siamo sempre al solito paradigma per cui il modo migliore per apprezzare qualcosa è perderla. Poi ritrovarla ha di nuovo il sapore di prima, moltiplicato due. Credo che qualcun altro l'abbia già detto, ma se avessimo la possibilità di resuscitare dopo la vita tornando in terra, a ragion veduta non perderemmo un solo secondo del nostro tempo per impegnarci in cose futili. E lo capiremmo da soli quali sono le cose futili. Per questo motivo Gesù non mi convince. Non posso immaginare di ritornare in terra solamente per riapparire al cospetto di chi mi ha crocifisso. O forse lo farei, ma per sputargli in un occhio.
Cose futili. O meglio scegliamo quelle che in qualche modo riempiono le nostre giornate. Dal lavoro agli amici, dagli hobby fino alle passioni. Senza sapere chi ce le ha messe lì, in fondo all'anima, a renderci felici o realizzati. Entelechia, come a voler tendere verso qualcosa o qualcuno, realizzandosi. Senza sapere perché, spinti da propulsori invisibili che ci indirizzano a forza lungo un viaggio o un percorso che in fondo non abbiamo mai abbracciato. Chi è portato per una cosa o per l'altra, per un mestiere o un altro, per uno studio o un altro. C'è chi colleziona tappi di bottiglia, c'è chi conserva le unghie dei piedi dopo averle tagliate. Così, perché sente di doverlo fare. Non sa perché ma continua a farlo. Scrivo, non so perché ma continuo a farlo. E continuiamo a fare cose, perché ci piace, perché mi va, perché mi fa stare meglio. Dovremmo imparare a stare meglio con le cose che ci fanno stare peggio, allora forse troveremmo delle alternative valide alla nostra monotonia. Nel frattempo è giusto fare ciò che ci riesce più facile: accomodarci e goderci lo spettacolo. Per il resto c'è sempre tempo, è ancora l'alba...
martedì 19 agosto 2014 4 commenti

Vacante

Nell’Italia martoriata dalla disoccupazione e dai patti maleodoranti della politica di palazzo, accade che in pieno agosto i dipendenti Alitalia decidano di far sentire la propria voce creando disagi ai turisti, i quali incarnano una delle poche realtà in grado di iniettare dosi di economia nelle nostre vene. E mentre i Turchi attendono una qualunque mano tesa per stipulare finalmente il patto che per l’ennesima volta salverà la tanto prediletta compagnia di bandiera, noi lavoratori temerari ci sentiamo in dovere di bloccare le valigie dei visitatori all'aeroporto di Roma-Fiumicino, impedendo qualsiasi scalo e rovinando le vacanze di migliaia di persone. Fra coloro che al nastro trasportatore hanno atteso con esasperata speranza il proprio bagaglio c’ero anch'io, oltre a decine di francesi, tedeschi, spagnoli, inglesi, russi e cinesi i quali, ognuno nella rispettiva lingua, hanno maledetto il giorno in cui decisero di venire a spendere i propri soldi di piacere in un Paese di protestanti. Se per assurdo qualcuno s’aspettava sul serio di perdere il proprio bagaglio, per merito della realtà tali paure sono state egregiamente esaudite, mentre i sogni di pace chiusi in valigia di centinaia di turisti venivano impilati e ammassati in un cimitero di Samsonite triste e vergognoso.
Nonostante tutto le mie vacanze sono iniziate lo stesso e non c’è disagio o sciopero al mondo che possa in qualche modo rendere meno saporito il gusto d’essere finalmente a casa. Della nostalgia che verrà non ce ne curiamo per adesso, anche se il tempo tiranno riesce sempre a sfuggirci di mano quando l’unico desiderio sarebbe quello d’arrestarlo. In fondo non c’è stato modo migliore per liberarsi delle cose inutili, delle giacche e delle cravatte, delle maglie e dei pantaloni, quando le uniche cose che contano sono gli affetti di una vita e il calore della famiglia. 
Perché vi sarà capitato d’essere stati spogliati, denudati, depredati di qualsiasi avere o materiale, rimanendo viscidi come vermi, eppure sempre pieni, soddisfatti da un animo rifocillato dalle gioie e dalle carezze di chi ci conosce non di vista ma di cuore. E allora anche solo indossare un paio di mutande pulite diventa superfluo…
Felici vacanze a tutti

sabato 19 luglio 2014 2 commenti

La barba

Se mi concederete solo pochi minuti del vostro prezioso tempo, gradirei raccontarvi una storia tanto bizzarra da essere reale. 
Vi narro d'un signorotto vecchio stampo, di quelli che placidi si appiattiscono alle abitudini della vita organizzando il proprio tempo fra il lavoro, la famiglia e le beneducate frivolezze dei gentiluomini. Non vi fu bocca sguaiata o malalingua che potesse infangare la sua moralità, alta oltre ogni misura, poiché non veniva pronunciato il suo nome senza che qualcuno elogiasse la sua persona.
A descrivervelo così come agli occhi si presentava, non potrei che lasciarvelo immaginare di media statura, sguardo serio dietro gli occhiali tondi e spessi come fondi di bottiglia, fasciato in un pastrano da soldato e impalato su di un pantalone lungo color castagna che s'adattava alla sua compostezza. Qualche capello lungo ed ingrigito dall'esperienza s'adagiava lungo il cranio semivuoto, scarno, come la sua carcassa che mai piaceri di gola si concesse. Un carattere fra tutti lo distingueva in maniera stranamente rilevante: la sua barba. Una folta ed ispida barba, oscura come la notte buia, insidiosa e affascinante come un bosco senza orizzonte che intimorisce il viandante privo di meta. Nessuno poté mai considerare l'uomo se non per merito della barba e, a giudicare dal seguito della mia storia, non potreste in alcun modo dire il contrario.
Avvenne una notte che egli, per gioco o forse per pura curiosità umana, s'immaginasse senza il gravoso aspetto che quella barba donava al suo viso e, rasoio alla mano, svelto falciò via un pelo dopo l'altro i robusti cespugli delle sue gote. A lavoro finito, liscio come il marmo, s'impomatò per bene la pelle ancora irritata e fiero del suo cambiamento andò a dormire.
La mattina dopo, mentre pigro cercava di destarsi, giratosi su un fianco iniziò a picchiettare sulla spalla della moglie cercando di svegliarla. Lei, voltandosi, aprì lentamente gli occhi e guardandolo in faccia s'alzo dal letto come colta da un fremito di paura. Urlò come una forsennata, scagliò per aria le lenzuola battendo i piedi per terra come un'indemoniata.
"E tu chi sei!?!??!?!?!?!?!? CHI SEI!??!?!?!?! DOV'E' MIO MARITO!?!?!??!?!"
Lui, istupidito, cercò in tutti i modi di tranquillizzarla rassicurandola del fatto che fosse proprio lui, suo marito. Niente da fare. In preda all'ira, lei chiamò le guardie le quali, anziché prendere atto della pazzia della moglie, gettarono fuori di casa e a calci nel didietro il presunto intruso.
A tratti incredulo e a tratti preoccupato dallo scherzo che senza dubbio tutti quanti macchinavano nei suoi confronti, decise di tornare a casa dai propri genitori, anziani ma ancora capaci di riconoscerlo. Fece per bussare che non appena sua madre aprì la porta lo guardò con aria stupita come a chiedersi chi fosse il buon uomo di fronte ai suoi occhi. Lui, sicuro di sé, si fece strada in casa fin quando suo padre, veterano d'armi, non imbracciò il fucile e non lo minacciò di morte.
Con la coda fra le gambe s'incamminò lungo le strade del paese chiedendo aiuto ai suoi concittadini. Nessuno lo riconobbe e videro in lui solamente le scelleratezze d'un vecchio pazzo di quartiere. Rassegnatosi all'idea di non essere più riconoscibile senza la sua importante barba, si abbandonò ai vizi immorali degli ominicchi di poco valore e in pochi giorni si beò di quanto la sua rigida esistenza non gli aveva mai concesso di vivere. Abituatosi alle pazzie non si accorse che giorno dopo giorno la sua barba ricresceva finché una mattina, svegliatosi, non se la ritrovò sulle guance folta come un tempo.
Uscito dalla bettola nella quale viveva, si recò al bordello in cui da poco tempo a questa parte era solito andare. I suoi concittadini lo riconobbero subito e guardandolo entrare in quella casa di vizi lo additarono delusi e amareggiati vedendo un esempio di così grande virtù mischiarsi con la feccia mondana.
Lui, completamente rincoglionito e ancora convinto del suo anonimato, continuò a spassarsela fino a quando sua moglie lo incontrò per strada ubriaco fradicio. Vedendolo intrattenersi con una donna di facili costumi, gli si avvicinò e gli diede un ceffone così forte da rigirargli il capo come solo Linda Blair sa fare ne "L'esorcista".
"BRUTTO PORCO" gli urlò.
Lui, in preda alla schizofrenia, si strappò uno per uno i peli dal volto tornando glabro e liscio come il culo di un bebè. La moglie, stranita, lo guardò e gli disse:
"Mi perdoni. Sono mortificata. L'avevo scambiata per un'altra persona..."
Privo ormai di senno lasciò che la ragione lo abbandonasse del tutto mentre la neuro lo portava via, avvisata dai suoi stessi concittandini che non si spiegavano da dove fosse sbucato quel vecchio pazzo. Da allora, impaurito dalla peluria, passa le sue giornate rinchiuso in una stanza dalle pareti di gomma, spillandosi via con cura qualsiasi pelo tenti di farsi strada fra le sue carni...
martedì 8 luglio 2014 0 commenti

Nettuno se ne fotte, ancora una volta...

A volte non c'è cosa migliore nel corso delle nostre giornate che avere la possibilità di perdere del buon tempo, sostando inermi di fronte alle frenesie della vita. Senza pretese, senza orario alcuno o appuntamento, limitandosi a scrutare ciò che ci circonda guardandolo vivere e respirare.
Dalla mia postazione riesco a distinguere il formicolio impazzito della gente in viaggio, in cerca di qualcosa, con un treno da prendere o da salutare, trascinando valigie o pesanti zaini che portano il fardello del futuro, nascosto fra i libri di diritto e appunti di chimica.
Una graziosa e curata vecchietta si avvicina al mio tavolo e prende posto.
-Ti do noia? - mi chiede garbata.
-Per carità... - rispondo.
-Sembri molto giovane. Se mi dessero vent'anni adesso rifiuterei senza battere ciglio.
-Io ne ho ventitré, s'immagini.
-Oh Madre Santa, mi dispiace per te. Ai miei tempi era tutto diverso. Bologna splendeva, era la Parigi d'Italia. Fiumi di champagne scorrevano per le strade. Quanta baldoria, si ballava fino a tarda notte e nessun ristorante ci negava un pasto caldo prima d'andare a letto.

Intimorito dai ricordi impregnati di nostalgia il cui esordio dei "vecchi tempi" è sempre d'obbligo come i "c'era una volta" delle favole per bambini, mi limito ad annuire. Resta comunque difficile arginare un fiume in piena, specie quando si tratta di gioventù lontane e di piaceri trascorsi.

-Nessun uomo ha mai osato sfiorarci nemmeno con un dito. E noi lo sapevamo, ci facevamo desiderare. Che eleganza, avremmo potuto conquistare il mondo solo a volerlo, ma ci hanno sempre trattate da gran signore, senza mai lasciarci trascinare dalla volgarità. Non come oggi. Ricorda bene, una donna di classe lo è anche con il pantalone lungo - concluse puntando il dito verso il cielo, come a voler dettare una massima di vita da incidere su pietra.
Un cameriere evitò che la situazione degenerasse.
-Un caffè per favore. Per lei? - chiesi in preda alla cortesia più modesta che si possa immaginare.
-Per me niente grazie. Sto già bene così. In tutti i sensi. La vita mi ha già offerto abbastanza, adesso sono in pensione. Ho lavorato per un'intera vita e me la sono sempre cavata da sola.
-Sarà stato fortunato suo marito - chiesi intrepido.
-Ma quale marito! - ribatté - Io non ho mariti. Ne ho avuti di uomini prestanti a farmi la corte, ma niente. Sono sempre stata da sola, io voglio star tranquilla. Esco e rientro senza rendere conto a nessuno. E ne ho visti di posti. Adesso mi godo i miei anni.
-Scelte di vita - dissi.
-Certo, c'è anche chi fa la scelta sbagliata. Quell'altra, insomma. Tu cosa fai nella vita? Qui tutti parlano di crisi. Poi le vedi in giro con il sedere di fuori, tatuate sulle braccia e con i piercing al naso. Alcune carinissime pure, ma con un linguaggio da far ribrezzo. Chi mai potrà darti da lavorare? Quando andavo a lavorare io al mattino ci alzavamo prestissimo. Ci vedevamo per la colazione e arrivati in corsia eravamo già pronti per iniziare. Lavoravo in ospedale sai? Adesso li vedi con le facce sporche che si strofinano gli occhi e sbadigliano. Non hanno nemmeno il tempo per la doccia dopo essersi svegliati. Quanto eravamo belle...
-Ha proprio ragione. Mi spiace lasciarla, credo di dover andare adesso. Piacere d'averla conosciuta.
-Piacere mio. E non andare troppo di fretta. Pensaci. Sa, la vita fa presto, a sbagliare è un attimo...
mercoledì 25 giugno 2014 4 commenti

Nettuno se ne fotte

Il caos. 
Auto, bus, moto, rifiuti urbani e suburbani, l'aria pesante d'un via vai d'anime senza pace, seduto ai piedi del Nettuno mentre San Petronio dall'alto soddisfatto mira l'opera di Dio.
"Un caffè per favore, anzi, due. Me li porti a distanza di venti minuti l'uno dall'altro, di modo che l'amaro in bocca non abbia il tempo di svanire."
Una vecchietta agghindata come una giovane donzella. Fa capolino lungo la strada, attende al semaforo impaziente che scatti il verde. Scatta. A stento riesce a gestire un paio di tacchi scomodi quanto la morte d'un marito troppo severo ed eccitata per un mondo che tardi s'apre di fronte ai suoi occhi va alla ricerca d'un po' di tarda gioventù. Si smarrirà fra le braccia d'un aitante furbastro squattrinato, disposto a sacrificare il proprio tempo pur d'ereditare i denari infelici della sua compagna.
Un'allegra combriccola, compagni di classe e di liceo. Si godono le piacevoli leccornie dell'incoscienza, mentre i propri maestri si sbracciano e si sgolano richiamandoli all'attenzione perché la vita non perdona. Ma niente, non ne vogliono sapere, troppo gustoso è il piacere di lasciarsi trasportare dalle onde, ridendo e scherzando, senza che la legge li incateni.
Faccio un bel respiro e inalo fumo di tabacco, che in forma di cenere si sparge sul mio tavolo e in forma d'aria malata prende il volo verso il cielo danzando con il vento.
Una coppia insolita accompagna per la via un bambino malconcio, vestito di stracci e maleducato ancor prima che la vita lo istruisca ad esserlo. Bestemmiano un gratta e vinci sfortunato, come se s'aspettassero che davvero fosse giunto il loro momento. 
Un uomo ben vestito, ventiquattrore alla mano, dritto e teso come una corda di violino. Squarcia la folla disordinata camminando lungo una ipotetica linea retta, cosciente del proprio ruolo all'interno di quel formicaio d'inetti gettati nel mondo. Tornerà a casa e troverà sua moglie in groppa al suo capo. Ecco il perché di quella promozione inaspettata.
Un invisibile. Chiede qualche moneta per tirare avanti, ancora un giorno, solo un altro, prima di sperare che le cose cambino affinché tutto resti com'è.
Una ragazza, svestita col solo scopo di lasciarsi spogliare con gli occhi. Un istinto naturale, soffocato dalla ragione, un monito a ricordarci che il nostro corpo tende verso la continuazione della specie ma che la nostra mente implora l'evoluzione. 
Tacchi, clacson, manifestazioni, bici, un tonfo, cammina, avanti, indietro, a destra, gira, volta e vai, pensa, ordina, immagina, guardati, saluta, aspetta, scusami, parla, urla, piangi, ridi, baciami, un altro caffè per favore, domani, oggi, un figlio, un esame, un colloquio, soldi, affitto, senza di lei, senza di lui, pizza, panino, un gelato, la partita, gli occhiali, sculetta, chiama, rispondi, riattacca, alza il volume, muoviti, paga, improvvisa, aspettami.
"Quant'è?" - chiedo.
Ma Nettuno se ne fotte.
mercoledì 4 giugno 2014 2 commenti

Il tempo delle mele

In tempi remoti dei quali non ci è dato sapere se non che fossero alquanto distanti dai nostri, viveva un contadino da anni servo del re, stimato e onorato dall'intera regia famiglia per il suo sapere sconfinato nell'arte del raccolto. Nessuno eguagliava la sua scienza ed era abile a tal punto che Madre Natura gli donava ogni cosa, alla stregua di un'innamorata che si piega al volere del proprio sposo, concedendo il proprio fiore ammaliata dalle lusinghe e dalle carezze.
Avvenne un giorno che il re, per mero capriccio del suo animo ingordo, gli commissionasse un lavoro tanto semplice quanto bizzarro. Essendo il Sommo ghiotto di mele, ordinò che nell'orto del castello venisse piantato un albero del genere i cui frutti sarebbero stati senz'altro i più buoni degli orizzonti fino ad allora conosciuti.
Il contadino, sicuro oltre ogni misura del proprio successo, si mise subito all'opera e, facendosi spazio fra le erbacce dell'orto, pose i nuovi semi.
Trascorse un tempo indefinito, finché i primi germogli non fecero capolino fra la terra con enorme gioia del re e, ovviamente, del contadino.
I giorni si susseguirono mentre rami e foglie si moltiplicavano rigogliosi sotto la supervisione scrupolosa e paterna del loro creatore. L'attenzione del contadino per quell'albero tanto importante divenne quasi maniacale: al sorgere del sole accarezzava delicatamente la corteccia del melo come a volerlo svegliare dal sopore della notte. La sera, prima di dormire, intonava per lui delle delicate nenie accompagnandolo al riposo. Se le intemperie imperversavano, era pronto a spogliarsi dei propri indumenti per vestire l'albero. Dosava con precisione quasi chirurgica l'acqua da dargli a bere, perché non si strozzi se troppa o perché non se ne lamenti se poca. Si dimenticò perfino della propria famiglia, dedicando anima e corpo alla sua nuova creatura.
Il re tuttavia, spazientito dal tempo, intimò al contadino di portargli i frutti del suo lavoro, curioso d'assaggiare il nettare degli dei.
"Occorre fare attenzione, sua Maestà: non abbiate fretta, perché da frutti troppo giovani c'è da aspettarsi senz'altro che siano acerbi..."
I giorni si susseguirono, finché uno dei frutti dell'albero, paffuto e colorito, sembrò intimare al contadino di voler essere raccolto. Egli non si lasciò attendere e, radioso come non mai, lo raccolse con cura, lo lucidò per bene e lo portò al re su di un piatto d'argento. Sua Magnificenza, impaziente di sentirne il sapore, addentò la mela con foga, diede un paio di masticate e, paonazzo in volto, sputò via con riluttanza quanto aveva mangiato in faccia al contadino.
"Villano zappaterra! Cosa mi hai portato?!?! Se è vero che i frutti giovani hanno il sapore dell'acerbo, quelli maturi portano con sé le putride fogne del regno! Va' e portami una mela degna di questo nome, se non vuoi che ti impicchi!"
Il contadino, impaurito e con la coda fra le gambe, corse in giardino ad assaggiare gli altri frutti. Erano disgustosi. Disperato già si vide sulla forca, quando volgendo lo sguardo notò un altro alberello, molto più piccolo, poco distante dal suo. A tal punto si concentrò durante quei giorni sul suo stallone che non s'accorse del puledro selvatico che gli era cresciuto accanto. Non aveva altra scelta: colse un frutto dal melo senza padrone, orribile a vedersi, malato per via dei parassiti e ingrigito dalle intemperie, che nessuna cura o educazione ricevette se non quella che la vita per conto suo impartisce ai propri figli e che porta il nome dell'esperienza.
Consegnò la mela al re, consapevole d'essere spacciato. Sua Magnificenza ancora una volta addentò il frutto, lo masticò con gusto e in un attimo lo divorò. Poi si rivolse al contadino:
"Hai fatto un ottimo lavoro. Un car melo simile nessun regno lo avrà mai. Per questo ti nomino Sir Carmelo da Sudtirol, e il tuo nome si tramanderà alle generazioni future, affinché i figli dei figli si ricorderanno della tua audacia."
Felice del proprio successo, il contadino se ne tornò a casa dalla moglie. Memore fu del fatto che non necessariamente dall'ordine si genera letizia, ma è il disordine che forgia la tempra di chi sa cogliere i giusti frutti dell'esperienza...
giovedì 15 maggio 2014 5 commenti

Sfacciato

Non c'era nessuno in tutta la contea e forse anche oltre i confini delle regioni limitrofe che non conoscesse i chirurghi Faccibbedda. Maestri sapienti, da centinaia di generazioni la fiamma viva del loro successo ardeva di luce propria, alimentata semplicemente dalla bravura che li contraddistingueva.
Tutti richiedevano il loro aiuto: capricci di gioventù o ghiribizzi stravaganti, per il solo gusto di piacere e di piacersi; ustionati, feriti o sfigurati gravi per il sacrosanto diritto di vivere con serenità; difetti e ritocchi per dare forma a ciò che madre natura per errore scarabocchiava. Nessuno mai venne deluso dal loro lavoro.
Per molti anni il nome dei Faccibbedda visse nella leggenda, ma giunti alla ventesima generazione, dopo che tanti figli di talento vennero messi al mondo, l'ultimo seme del sapere, Gaetano detto "Tano", venne fuori con il gusto per l'imprevedibile.
Egli, stanco e assuefatto dalla monotonia e dalla perfezione di quella famiglia così rinomata ma dal destino segnato, volle uscire fuori dagli schemi. La responsabilità del suo nome altisonante già da tempo gli pesava sul groppone e impellente per lui si faceva la necessità d'abbandonarsi ad un nuovo destino. Non c'era modo di sfuggire all'occhio dei passanti, ovunque veniva riconosciuto e adulato. Richieste d'aiuto e suppliche, congratulazioni e premi, ovunque i Faccibbedda avevano da riscuotere qualcosa. Estraniarsi era pressoché impossibile.
Accadde una sera, tuttavia, che all'imbrunire un pover'uomo senza dimora e vestito di stracci passasse lungo la via di casa Faccibbedda. Tano, vedendolo solo e anonimo, fu attraversato da un lampo di genio, di quelli che scuotono la materia grigia e che quasi provocano l'orgasmo. Corse in fretta per strada e silenzioso come un felino gli diede una bastonata sulla nuca.
Lo portò in casa, tramortito, e lo adagiò sul letto. Prese gli strumenti da lavoro, bisturi, ago e filo e iniziò ad incidere lungo il volto del malcapitato. Strappata via la faccia del barbone, eccitato com'era e in preda all'euforia, senza dolore alcuno incise anche se stesso lungo il volto, seguendo il perimetro tracciato poco prima.
L'intervento durò tutta la notte. Ricucì con cura tutto quanto e fuggì via, lasciando i propri averi, il barbone sconcio e la città.

Fu un successo. Con un volto così anonimo nessuno lo riconobbe per strada e indisturbato s'aggirò per la contea concedendosi ai lavori più disparati: lavapiatti, mercante, allevatore, contadino, cuoco. Saltò da un punto all'altro del globo, non fermandosi mai, rinascendo dalle sue ceneri e in condizioni sempre diverse. 
Un giorno accadde che, passeggiando indisturbato per le vie della capitale, incrociò un pomposo miliardario, accompagnato dalle sue fedeli concubine. Pervaso dall'invidia per quell'altezzoso modo d'essere e d'apparire, la schizofrenia lo rapì e subito macchinò un nuovo intervento.
Dopo averlo reso inerme incise il suo volto, strappò via la faccia da barbone e si impiantò una nuova maschera. Eccitato corse dalle concubine le quali, riconoscendo il volto familiare, lo coccolarono come per loro era solito fare.
Tano non ebbe più pace. Dannato e senza freni strappò volti senza pietà, cambiando vita, emozioni, sentimenti e realtà. Fu tutto e niente, irriconoscibile agli altri come per sé, cambiando maschere, sfacciato.
Il caso volle che poco prima della sua morte l'ultima vittima della sua schizofrenia fosse un attore di fama internazionale. Lo seppellirono nel tempio della commedia dell'arte e l'epitaffio così recitava:
"Uno, nessuno, centomila..."
giovedì 1 maggio 2014 4 commenti

Inno al sonno

C'è qualcosa di metafisico nel dormire. Non c'è essere vivente al mondo che non dorma. Dormono tutti, dal ricco al povero, lungo l'equatore e passando per i poli, da New York alla più remota e sperduta isola del globo. Non c'è essere vivente al mondo che non dorma. Gli esseri inermi a loro modo si può dire che dormano, rimanendo impassibili di fronte alla frenesia che li circonda. Passiamo più o meno un terzo della vita dormendo e a ragion veduta sono le ore più innocenti della nostra esistenza.
Basta poco, in fondo, per chiudere gli occhi. Ci si immedesima in se stessi senza freni né paure. Alcuni ne restano affascinati a tal punto da voler interpretare i propri sogni da svegli. Non è in alcun modo possibile. Non c'è esperienza più intima, personale e magica del riposo. Ricostruiamo la nostra realtà in un mondo che non ci appartiene, a volte senza alcun senso. Questo perché quando dormiamo non pensiamo, non ragioniamo, non elaboriamo, non scegliamo, non decidiamo, non escludiamo né includiamo. Detta legge la pura e limpida voglia d'abbandonarsi al caos. Inconsapevoli, senza torto né ragione, tra le sfrenate voglie e le più assurde paure. Ci sono giorni in cui svariate ore non bastano per soddisfare la nostra sete di nulla. Ci sono riposini da mezz'ora che sembrano durare una vita. Non ci sono giudizi, né incomprensioni, né conseguenze. Forse non c'è nemmeno immaginazione; essa necessita d'attività cerebrale e il sonno detesta il senno. L'unico dogma a cui fa capo il sonno sono i sogni. Non sappiamo in quale area del cervello originano, né conosciamo lo scopo dei sogni stessi. Non è vero che i sogni son desideri di felicità, possono anche essere tristi, carnefici, orribili, strazianti. Nessuno può dire entro quali limiti si circoscriveranno, si plasmano e si modificano come creta fra le mani esperte d'un vasaio che non sa d'essere un vasaio e che non sa fino in fondo che forma avrà la sua opera compiuta.
Non ci sono peccati nei sogni, non ci sono conseguenze rette dal sistematico evolversi degli eventi, ma esistono eventualità che in un batter di ciglia possono svanire via in un nebuloso turbinio d'inconscio.
Non è vero che chi dorme non piglia pesci. Chi dorme può avere tutti i pesci che desidera, può parlare e ridere con loro, può andare a cena con loro e ordinare una saporita fiorentina ai ferri. Può anche fare del sesso orale con una trota.
Non esiste alcun tempo, nessun passato, nessun presente e nessun futuro. Non c'è qui ed ora, niente orologi, niente tempi o scadenze, niente diritti o doveri, padroni o schiavi, re o regine, ladri di biciclette o venditori ambulanti di bugie.
Cosa aspetti ad andare a letto? Su di un materasso, per terra, in spiaggia, su di un manto erboso, sotto una quercia secolare, su di una donna. O V U N Q U E.
L'unico dispiacere che porta con sé il dormire è non poter vivere appieno le meraviglie della notte. Per questo motivo bisognerebbe dormire di giorno e restare svegli la notte. 
Io lo faccio sempre.
venerdì 18 aprile 2014 6 commenti

Pupi e pupari

Si mescolano fra loro, le vite delle genti, girate e rigirate, come a voler sciogliere lo zucchero nel caffè. Uno, due cucchiaini, s'adagia su una soffice crema e poi affonda in un mare amaro. Si mescolano fra loro, le vite delle genti, fino ad annullarsi, e credono d'aver reso dolce la loro permanenza sulla terra. Si mescolano fra loro, irrequiete, girano in una spirale di parole mai dette e sguardi fuggevoli, in cerca di qualcuno che li prenda per mano e li accompagni fino in fondo, senza mai sentirsi soli, mentre il tempo a piccoli sorsi li lascia morire, gli uomini. Si mescolano fra loro, ragionando pazzie e simulando bugie, per sfiorare anche solo per un attimo effimere felicità, mutevoli, nascoste in angoli bui e tetri mentre ad ogni giro di cucchiaio tutto si disperde, nel nulla. Si mescolano fra loro, progettano e s'affannano, credendo d'essere ancora sulla cresta dell'onda, a galla, immaginando che saranno sempre vigorosi e forti, ma ad ogni giro di tazza s'abbassano di livello e s'avvicinano al fondo. Si mescolano fra loro, a casaccio, senza che nessuno spieghi loro "perché", afferrati dal fato e gettati nel mondo, uno o due cucchiaini, si guardano intorno, sorridono mentre affogano, tentano di stringersi in abbracci di fortuna, a volte egoisti, innamorati e stupidi. Si mescolano fra loro, vittime di noia ed abitudine, lasciandosi girare e rigirare in senso antiorario, andando sempre verso la stessa direzione. A volte qualcuno rinsavisce, sfugge alle consuetudini e guarda l'ora, le lancette puntano verso orizzonti diversi.
Si mescolano fra loro. Nel frattempo un puparo senza nome né volto sniffa l'odore tiepido del suo caffè appena spremuto. E' soddisfatto delle sue miscele, uno, due cucchiaini di zucchero, gira e rigira ancora mentre s'accarezza le labbra con la lingua, voglioso. Un ultimo sguardo alla vita, affonda il naso dentro la tazza e dilata la gola, spazzando via esperienze, emozioni, ricordi, sogni, paure, speranze e sorrisi, mentre tutto scorre via, caldo come un amplesso.
martedì 1 aprile 2014 10 commenti

L'allegra compagnia

A schiena gobba, chinati sopra la scacchiera e la sigaretta in mano. L'uno accennava a strizzare via dalle meningi fluido d'ingegno e sapienza prima della prossima mossa. L'altro, spazientito, si grattava il capo mimando disinteresse. 
Intorno a loro le peggiori compagnie in combutta con la noia dei giorni cercavano in qualche modo d'ammazzare il tempo, ma la vita degli scheletri nell'armadio non poteva che essere maledettamente piatta. Non di rado, per una bugia proferita a bassa voce o per un dispiacere nascosto, un altro inquilino s'aggiungeva all'allegra combriccola d'ossa facendosi largo fra i cappotti e le pellicce. 
Alcuni, impigliati fra le grucce, perdevano gli arti o si frantumavano le costole, ma a parte le risate maligne nate dalla sventura altrui, nient'altro colorava le giornate di un funereo guardaroba. Quando prepotente s'accumulava la polvere, ci si dilettava a modellare con le dita scheletriche goffi omini d'ovatta grigia, ognuno ricordando la persona sbugiardata. Sempre per via delle scarse condizioni igieniche, di tanto in tanto s'andava a caccia d'acari e zecche. Era di gran lunga il passatempo preferito dell'allegra combriccola, forse perché non potendo ammazzare il tempo ci si accontentava d'ammazzare i parassiti.
Nonostante la noia, decenni, secoli, millenni passarono per molti scheletri d'armadio senza che nessuno li disturbasse o che la loro dimora venisse venduta per due soldi ai mercatini dell'usato. E' risaputo infatti che, cambiando proprietario, il diritto sulla menzogna del vecchio titolare decade imponendo lo sfratto ai miserabili inquilini.
- Che vita da cani - si dicevano.
- Ne arriva un altro, è bello grasso, chissà per quale frottola!
- Fammi spazio, aspetta...
- Spostati un attimo, ho il tuo omero sul naso, ferm... OH!
- Non spingere!
- Sta' seduto!
- Zitti, sta per aprire l'armadio!
- Insomma, onorevoli colleghi, è ora di dire basta! Noi scheletri nell'armadio abbiamo sopportato per anni le fandonie dei nostri padroni, rappresentando la feccia della società senza che la verità potesse far luce fra le ombre dei falsari! E' ora di riscattarsi, onorevoli colleghi, veniamo fuori dagli armadi e raccontiamo al mondo le nostre ragioni! Seguitemi, miei prodi, per la libertà e per la gloria!
In quel preciso istante, dopo l'orazione dello scheletro-capo, aperte le ante dell'armadio tutti gli scheletri vennero fuori e così senza sosta, finché tutte le cazzate del globo furono alla mercé di tutti.
Si sfasciarono famiglie e rapporti d'amicizia, le mogli divorziarono e i mariti, beh, continuarono a fare quel che facevano prima. I preti persero gli ordini, le suore furono felici di perderli e le alte cariche dello stato furono destituite. Fu il caos. Nessuna bugia fu più proferita e nel nome della limpida verità tutti i legami fra gli uomini si sfasciarono inesorabilmente. 
Si salvarono solo tre scimmie...
sabato 15 marzo 2014 4 commenti

Capre e cavoli

Da quando certi uomini hanno imparato a riconoscere ciò che è giusto escludendo ciò che è sbagliato, un male di nome "peccato" dicono abbia macchiato le nostre anime. La realtà resta comunque indifferente alle circostanze e non è detto che a giudicar con vergogna certe azioni si abbia sempre ragione, orgoglio dei pazzi.
Nei tempi che furono, menti timorose di un dio fino ad allora impegnato a non esistere sancirono che se peccare è illecito, espiare è cortesia. Purtroppo privi di parola e incapaci d'esprimere il proprio parere, talune capre vennero scelte per essere sacrificate nell'altare del perdono, donando la propria vita in cambio dell'assoluzione degli dei. Da qui il nome "capro espiatorio".
Più che simboleggiare la buona volontà a pentirsi di certi peccati, i capretti scannati avevano il sapore di chi dona pace all'anima propria sapendo d'aver dato la colpa a qualcuno o a qualcosa. Perché fin dall'alba dei tempi abbiamo la necessità di trovar conforto alla nostra ignoranza ed essendo difficile castigare se stessi è facile attribuire alle malefatte sembianze diverse, quando basterebbe guardarsi allo specchio per risolvere ogni dubbio.
Fu un periodo nero per le capre. Adulterio? Capretto. Omicidio? Capretto. Furto con scasso? Capretto. Furto senza scasso? Capretto. Ne gioirono le macellerie e i rapporti sociali: gli uni perché triplicarono le vendite, gli altri perché non si faceva altro nell'arco delle settimane che organizzare grigliate in campagna. Le galere si vuotarono e molti uomini malvagi ottennero la grazia disossando capretti.
Le capre, dopo millenni di vessazioni e stermini, decisero di organizzarsi e in nome dei propri diritti fondarono il BEE (Basta Espiare Eresie). Molti capretti riuscirono a fuggire, altri da martiri si concessero al nemico e vennero immolati in nome del perdono. Gli anni passarono e il numero dei capretti diminuì vertiginosamente finché ne rimase soltanto uno. Lo trovarono impiccato accanto ad un bue e ad un asinello la notte di Natale. Come abbia fatto il nodo scorsoio con lo zoccoletto resta un mistero.
Terminate le capre, i montoni, le pecore e gli agnelli, si passò ad altre categorie d'animali. Poi venne il turno degli insetti, poi i volatili, poi i pesci, ma i peccati degli uomini furono così tanti che ben presto non rimase nessuno, anche se durante il periodo dei pesci si mangiò veramente bene.
Finite le scorte animali restava una sola cosa da fare. Diventare vegetariani.
Abituati alle prelibatezze della carne i cavoli furono amari. Dopo un lungo periodo di consultazioni si decise di istruire alla nobile arte del dito puntato tutti coloro che di mestiere avrebbero espiato i peccati degli altri. Nacque così la prima Università delle Capre, un percorso di formazione lungo 5 anni (magistrale compresa) che sfornò caprette misericordiose pronte a farsi carico delle colpe del globo. 
Fu un successo. Ogni famiglia possedeva un capro espiatorio, ogni partito politico ed ogni dirigenza, ufficio, per l'uso in comune e di coppia, ovunque. A Natale regala un "capro espiatorio", a Pasqua, per il tuo matrimonio, per la laurea di tua figlia, per la maturità di tuo figlio, per il battesimo di tuo nipote, un capro espiatorio è per sempre.
Da allora nessuno si prese più le proprie responsabilità vivendo felice e senza macchie nell'anima. Perché la colpa è sempre... di qualcun altro...
martedì 25 febbraio 2014 4 commenti

Gondole e coriandoli

Rare sono le bellezze che a vederle più di una volta anziché stancarti riescono ancora a sorprenderti, quasi come se ad ogni sguardo si rinnovassero, più sfarzose ed eleganti di prima, lasciando un'aura di sogno e libidine. L'ho rivista tante volte Venezia, in occasioni e circostanze sempre diverse, ma di qualsiasi abito si vesta mantiene sempre l'eleganza di una gran signora le cui grazie non smettono mai d'incantare.
Vestita di colori e stravaganze non l'avevo ancora conosciuta e quale migliore occasione se non quella del Carnevale per incontrarci di nuovo fra gondole e coriandoli. 
Per un treno che va, un altro ne viene, e decidiamo quindi di partire nonostante le previsioni non promettano nulla di buono. Un sabato sera di piogge intense rischia infatti di rendere più breve del previsto la nostra gita fuori porta, ma a volte la fortuna aiuta proprio i temerari e poco dopo essere arrivati lo spirito d'arlecchino ci ha concesso di chiudere gli ombrelli. Volendo pur considerare la notte giovane, gli orologi, vittime del divertimento, scandirono ore e minuti al ritmo dei secondi e in men che non si dica le scorribande e gli eccessi tipici del disordine carnevalesco culminarono in un ronfo di nasi dal sapor di domenica.
Una giornata di sole, di ricami e di sfarzi ci attendeva il giorno dopo.
Ad essere testimoni dello spettacolo e dell'ambiente in cui all'improvviso ci si ritrova, è quasi come catapultarsi nel più elegante e nobile Rinascimento, quando ancora l'impiccagione e la ghigliottina sostituivano i servizi sociali e la prescrizione, periodo in cui anche la peggiore delle Ruby manteneva un certo decoro ed onore.
A voler venir fuori dai tempi moderni si fa presto e trovando una maschera la cui appendice nasale è degna delle menzogne dei miei anni ho deciso di trasfigurarmi anch'io. Il cappellino da doge mi conferiva definitivamente l'onorificenza di
Sua Serenità che molti in questa vita mi hanno attribuito per via della mia pacatezza d'animo, in siciliano meglio conosciuta col detto di "futtitinni e pensa a saluti", o col dantesco "non ti curar di loro ma guarda e passa", a voler essere poeti.
Ricoprendo un ruolo fra i giochi e i travestimenti che annullano ogni identità, quasi ci si sente purificati dietro i ricami di plastica delle maschere, come a voler espiare i propri peccati dimenticando se stessi. E allora dame e damigelle, nobili e uomini d'alto rango, cortigiane e regine, spadaccini e moschettieri, tutti e nessuno a far parte del più fantasioso Carnevale che io abbia mai visto, incorniciato in una Venezia signorile e raffinata.


Ogni sogno per quanto bello possa essere non ha altro destino che palesarsi nella realtà, cessando d'esistere. 
Il nostro risveglio portava il nome delle Ferrovie dello Stato ed entrare in treno è stato come attraversare il passo delle Termopili in mezzo ai 300 spartani. Alla fine ce l'abbiamo fatta e mentre ci rimettevamo in marcia una donna di mezz'età ha pensato bene di parlare di suo figlio, laureato in fisica nucleare e che non trova lavoro.
A volersi mascherare si diventa buffoni solo in certe occasioni. Per la nostra classe politica, che di maschere non ne usa, deve sempre essere Carnevale...

giovedì 6 febbraio 2014 0 commenti

La tavola rotonda

A tal punto da far impallidire Lucullio, la Vita servì le più succulenti pietanze di cui disponeva. Per evitare che i commensali intendessero male la disposizione dei posti o che Incomprensione e Maldicenza fantasticassero sui lati lunghi e sugli angoli, si decise di apparecchiare su di una tavola rotonda. 
L'ora del banchetto s'approssimava e già i primi ospiti giungevano e prendevano posto. Per primi si sedettero Onestà e Slealtà; seguirono Coerenza e Ipocrisia, a braccetto accompagnati da Benevolenza e Maldicenza; chiusero la fila Misericordia e Incomprensione; anche se in ritardo, trovarono posto Quiete e Tempesta. Non appena le sedie furono tutte quante occupate uscirono i primi piatti, accompagnati da un caldo ed intenso odore di spezie. Ognuno ebbe la sua porzione e lascio al lettore lo sfizio d'immaginarsi quanti fra i suoi più saporiti peccati di gola osi soddisfare la propria fantasia. Risotti, lasagne e paste all'uovo, ravioloni e gnocchetti, salse di pomodoro e funghi trifolati.
Onestà terminò per prima, si ripulì le labbra con decenza e restò pacifica al suo posto. Slealtà, nonostante buona parte del suo piatto fosse già sgombra, accusò i camerieri d'averle servito una porzione ridotta. Coerenza, per sua natura schietta e sincera, accusò Slealtà d'essere falsa e menzognera. Tempesta si sentì chiamata in causa ed eccitata fece di tutto per aizzare i due commensali l'uno contro l'altro. Fortunatamente Quiete, paciere fra le parti e d'animo buono, diede metà della sua porzione a Slealtà la quale, soddisfatta del suo capriccio, ritornò a mangiare in silenzio.
Il banchetto proseguì senza ulteriori screzi fra i commensali. Tuttavia Maldicenza, seduta alla destra di Tempesta, tentò in tutti i modi di riportare la discussione sui toni aspri di poco prima ma Benevolenza, alla sinistra di Tempesta, compensava la becera insolenza delle lingue biforcute.
Dopo una breve pausa giunsero i secondi piatti. Stinco di maiale arrosto, fumante, il cui grasso ancora sfrigolava, polpette al sugo, trota alle erbe, filetti di orata e scaloppine, straccetti di pollo, costolette e calamari. Vita si dava un gran da fare in cucina.
Slealtà, ingorda, tentò il solito gioco delle porzioni dimezzate. Incomprensione stavolta non riuscì a trattenersi e nonostante Quiete ben volentieri donò nuovamente parte della sua razione di cibo a Slealtà, Tempesta si scatenò e fu il caos. Misericordia si alzò e andò via; Onestà, sua grande amica qual'era, la seguì senza indugi insieme a Benevolenza; Quiete, giunti al punto, si piantò una coltellata in petto. Mentre tutti litigavano, fra le urla e le accuse si levò la voce di Ipocrisia:
"Va ancora tutto bene..."
Ognuno di loro andò via lasciando alla Vita doni e grazie. Inaspettatamente però qualcuno si avvicinò alla tavola imbandita: silenziosa prese posto Solitudine e, fra un morso e l'altro, si rese conto che la sua natura non era poi così sciagurata. Ghignò soddisfatta, mentre dalla sua bocca scolava grasso di maiale...
martedì 21 gennaio 2014 7 commenti

Senilità

Chiamando a raccolta le deboli forze che l'età gli metteva a disposizione, un caro ma decrepito vecchietto si mise in cammino lungo la via diretto al Bar Sport, meta di anni giovani e forti.
Ogni giorno aveva il sapore dell'ultimo, come se qualcuno giocasse alla roulette russa con la sua anima, aspettando che il grilletto centrasse il colpo e che la vita trapassasse. Nell'attesa c'era sempre tempo per l'ultimo caffè e per l'ultima sigaretta, perché da qualche parte in quei polmoni marci di catrame doveva pur esserci un bronco ancora in grado di respirare. 
Puntellandosi col suo fedele bastone, arma di saggezza contro gli innocenti soprusi di bimbi molesti, si fece strada fra le frenetiche vie della città popolate da uomini d'affari, giovani studenti, mamme in carriera e bimbi sperduti. Nonostante tutti quanti sembrassero avere una meta ben precisa, quel caos calmo dava l'idea di un grande impasto di nullità e di pedine mosse per il solo piacere di farlo. Passò rapida una gran signora, tacchi a spillo e gonna stretta a delle natiche tonde, un gran bel davanzale, vestita d'importanza e di Chanel. Non le staccò lo sguardo di dosso, vecchio libidinoso, ma a quel sogno non seguì desiderio, come se le sirene cantassero ad un Ulisse ormai sordo e decrepito.
Giunse finalmente al Bar Sport, trovò un tavolo libero e si sedette, implorando alle proprie ginocchia un ultimo sforzo fatto di santi e bestemmie. Perché se non trovi Dio da vecchio, è proprio vero che non l'hai mai cercato.
Prima di ordinare, si sedette accanto a lui una vecchia reliquia del tempo, che insieme quasi raggiungevano il bicentenario. Povero straccio. Vestito di Caritas, le maniche corte della sua camicia a quadri lasciavano penzolare una pelle ruvida e grinzosa come una castagna secca, mentre le mani, deboli ma sapienti, cercavano un appiglio al quale reggersi. Un paio di graziosi pinocchietti gli davano un aria da pescatore e i sandali ai piedi lasciavano intendere che sapeva bene di non puzzare. Infatti non puzzava. Solo di tanto in tanto, aprendo bocca per cacciar via muco e catarro, s'avvertiva nell'aria un flebile odor d'ospedale misto a formaggio rancido.
- Cosa prendi? - chiese il primo.
- Un caffè, grazie.
- Non rimpiangi nulla? - ribatté. 
Il caro vecchietto accennò una smorfia di disappunto tirando su una delle sue grosse narici, poi riprese:
- Forse, ma ormai è andata. Sappiamo bene come va a finire, eppure dedichiamo parte dei nostri giorni e dei nostri tempi felici alle cose banali e superflue, cerchiamo d'avere ragione e litighiamo perché gli altri se ne accorgano. E' una gara a chi arriva primo pur sapendo che al termine della corsa non ci saranno podi né premi.
- E se ti concedessero un'altra vita? E se ti dessero dell'altro tempo?
- Non lo vorrei. Ne sprecherei ancora sapendo d'averlo. Mi ricordo di una cara donna che mi lasciò per un altro uomo. Persi degli anni a riconquistarla e non ci riuscii, se tornassi indietro potrei guadagnare quei giorni. Ricordo di una bravata fra amici. Mi schiantai in bici contro un albero e rischiai di rimanere paralizzato per sempre. Persi degli anni per rimettermi in sesto, se tornassi indietro potrei riavere quei giorni. Ricordo di un pugno sferrato in faccia ad un mio coetaneo prepotente e buffone, gli ruppi il setto nasale. Mio padre mi diede delle vergate e mi chiuse in casa per settimane. Se riuscissi potrei farmi ridare quei giorni. Sono tanti i modi in cui ho perso del tempo, ma se non l'avessi fatto cosa avrei da raccontarti adesso?
Dagli occhietti serrati dell'altro si fece spazio una lacrima pura e cristallina, intrisa di errori e di speranze, di scelte fatte o subite, ma carica dell'esperienza di chi ne ha viste tante da poter dire d'aver vissuto...
sabato 11 gennaio 2014 0 commenti

11 gennaio 2014

Bentornato a casa. Disfa le valigie e riposati.
Se c'è qualcuno che ti aspetta, da qualche parte, sempre, significa che stai facendo un buon lavoro. Certe cose bisogna perderle, sentire la loro mancanza e ritrovarle con gioia per misurare esattamente quanto valgono. Ci sono noie che non lasciano scampo: l'abitudine appiattisce gli affetti e intorpidisce l'animo. Non c'è contraddizione più grande insita nella natura umana che quella di dimenticare le proprie fortune quando le stringi in un pugno e non c'è maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella disgrazia, dissero i grandi.
Molti figli del terzo millennio, orfani di una modernità che non offre stipendio, se ne rendono conto solo adesso. Ed io con loro. Londra, Germania, Francia. Chissà chi resterà in paese. Chissà chi pagherà i caffè. Chissà chi insegnerà ai figli delle campagne a costruir capanne di legno sui terreni genuini in cui crescevano le fragole. Chi le ruberà, quelle fragole?
C'è qualcosa di subdolo in un malessere che sa di benessere malcelato ma ostentato dalla tecnologia e dai lustrini delle grandi firme. "E' il vostro paese che vi caccia" mi dissero mentre aspettavo il mio turno ai controlli di sicurezza. Me lo dissero mentre le braccia pesanti dei parenti e degli amici si alzavano mimando un saluto fatto di nostalgie e di speranze. Certi occhi si persero fra tutti quelli sguardi tristi intenti a ritrovare affetti e calore, ma alla fine ci si volta. "E' il vostro paese che vi caccia". Me lo dissero con la freddezza chirurgica di chi opera a cuore aperto, trancia arterie e poi si sbaglia, tanto il paziente l'avremmo perso comunque. Di cosa soffriva? Era malato?
A volte ci si dimentica che siamo tutti viaggiatori di un treno senza meta e senza macchinista, che si ferma e poi riparte, forse deraglia, ma sempre pieno di capitreno che, in divisa e sicuri del proprio posto, controllano i biglietti a noi viaggiatori dalla triste figura. Ma quanto pesa quella valigia.
Rimetti i vestiti al loro posto. Venti chili? Puoi andare. 
Se il paese che mi caccia iniziasse a meditare sulle sue responsabilità...

 
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