martedì 29 maggio 2012

Trovami la fine

"Oh Antonio, ciao! Come vanno le cose?"
"M-E-R-A-V-I-G-L-I-O-S-A-M-E-N-T-E bene..."
"Minchia! Addirittura, mi fa piacere"
"Macari a mia. Gli amici ci sono, il lavoro c'è, gli affetti pure. E quannu hai chisti tri cosi, cos'altro ti serve?"

Non che io non ci abbia mai pensato (perché se non lo facessi avrei scarsa considerazione del mio futuro), però quella poco sopra è una breve conversazione che mi ha spinto a riflettere su cosa abbia realmente bisogno la mia vita. E non bisogno di quei bisogni superficiali o materiali. Parlo di cibo di prima qualità, abbastanza buono da sfamarla.
Indipendentemente dal lavoro di Antonio, la sua risposta lascia intendere che la sua vita ha concluso. A proposito di concludere, ho estrapolato per voi da Wikiquote una frase di Pirandello che mi piace spesso cercare di ricordare:

"La facoltà d'illuderci che la realtà d'oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall'altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d'oggi è destinata a scoprire l'illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita."

Una vita "conclusa" credo sia direttamente legata ad una vita "realizzata". E la voglia di realizzare e realizzarci non può che essere il motore che ci spinge a meccanizzarci e a muoverci per collocarci all'interno della nostra esistenza, rendendola paradossalmente concreta (come se fino ad allora non lo fosse).
Tuttavia non ho ben capito quali siano le sensazioni o l'insieme delle emozioni che rendano una vita "realizzata". Non credo che i miei dubbi siano frutto dell'assenza di progetti per il futuro, ma è il raggiungimento del "concludere" che non riesco a chiarire e, riflettendoci un po', c'è il rischio che quegli stessi, ipotetici progetti non concludano nemmeno loro.
La prima cosa da fare, mi sono detto, è cercare l'etimologia della parola "realizzare". La storia che le parole portano con sé (e che non è possibile studiare all'università perché, per quanto mi riguarda, diventerebbe maledettamente noiosa e poco personale) rende già abbastanza giustizia ai significati delle cose. 



Fonte: www.etimo.it


Il "reale" del realizzare riguarda prima di tutto le cose. Oggetto che esiste, che concerne i fatti delle cose esistenti, la vita ha concluso.
Cosa significa comunemente realizzare?
Per qualcuno vuol dire farsi una famiglia, avere degli affetti intorno e servirsene per colmare i propri sensi d'appagamento d'esistenza. E' un concetto che rasenta l'egoismo forse.
Alla famiglia molto spesso, anzi, necessariamente, si affianca il lavoro. Questo punto, il più caleidoscopico e dalle mille sfaccettature, realizza per alcuni e accontenta per altri. In quale momento della propria vita si può dire d'essere professionalmente realizzati? Ci sono delle classi lavorative che possono sentirsi più appagate d'altri? Sentirsi professionalmente realizzati, prescinde dal ruolo ricoperto all'interno della società o dalla retribuzione mensile?
In questi casi non si realizza; oserei dire che si materializza. E' altrettanto vero che ci si aspetta e si mira ad ottenere, per questioni di sopravvivenza quasi naturali, il massimo da se stessi e per se stessi, sfiorando i limiti della sopraffazione dei simili. Ma "realizzare" la propria vita tramite il confronto con le altre, rende forse le nostre esistenze funzionali e direttamente asservite ai comuni e non personali sentimenti del "concludere"? E' possibile in tale modo dirsi "realizzati"? O è meglio dire che ci si realizza per merito dell'altrui concepimento della nostra persona "realizzata"? In questo caso credo sia corretto affermare che siamo disposti ad affidare a terzi la nostra vita. Senza riconsiderare il fatto che rendiamo il Reale tramite il materiale, e questo non mi sembra logicamente coerente.
Prendendo il postulato per buono, rendere reale la nostra realtà nella maggior parte dei casi vuol dire quindi materializzare sogni e aspettative. Non solo materializzarli concretizzando il migliore dei nostri mondi possibili, ma toccando con mano (quindi possedere tramite oggetti che esistono), i risultati da noi raggiunti (diploma, laurea, casa, auto, moto, cellulare, benessere, proprietà, vacanze, terme, viaggi, ecc.). Piccoli passi verso la nostra eventuale conclusione vengono mossi tutti i giorni, nella staticità del quotidiano e nel movimento delle nostre vite. Ma in quale momento della nostra corsa è possibile fissare il traguardo?
Non so, personalmente, che rispondermi. Vorrei che voi vi rispondiate, altrettanto personalmente. E' possibile che l'unico capolinea coerente con la conclusione e con la realizzazione delle nostre vite sia stabilito dalla morte, momento in cui non ci viene più data l'opportunità di muoverci e di scorrere lungo il nostro percorso? In questo caso spiegheremmo la "realtà del realizzare" con l'inconoscibile dell'irrealtà, perché nessuno è mai tornato dall'Ade per narrarci la non-vita. E questo risulterebbe ancora una volta logicamente incoerente.
Ditemi, come pensate di "realizzare" e concludere la vostra vita?
Forse è ora d'andare a letto presto...

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Interessante post...devo riflettere...ma i miei neuroni si ribellano, e il mio sistema operativo mentale mi ha comunicato che o vado a dormire, o mi disconnette in automatico! Ripasserò per un commento decente...;)
Un abbraccio :)

Andrea ha detto...

non vedo la realizzazione nella vita come un traguardo...piuttosto come quel momento di equilibrio che alternativamente perdiamo e recuperiamo (i più fortunati più spesso di altri). Poi le carte si rimescolano (eventi esterni, scelte del cazzo) e si riparte a cercare nuovamente quell'equilibrio perduto.

Pierpaolo ha detto...

Aspetterò il resto del commento allora... A risentirci :)

Pierpaolo ha detto...

Un gioco di equilibri dici... Su di un filo sospesi nel vuoto... Camminandoci sopra verso cosa? "Realizzare" è l'altra parte del burrone, finito d'attraversarlo... E' quello che non ho ben compreso... Come s'arriva dall'altra parte e se mai si arriva..

Anonimo ha detto...

Come onesta persona, Antonio non prende i suoi impegni con leggerezza. È una persona seria lui, per questo motivo un bel giorno decide di mettere nero su bianco le sue priorità, i suoi bisogni e i suoi desideri. Vivere, d’altronde, non è un impegno da poco.
Anche se le cose non vanno con facilità Antonio non si compiange, avanza con decisione e non abbandona i suoi obiettivi fino a quando, un po’ per bravura e un po’ per fortuna, riesce ad ottenere tutto quello che ha appuntato in lista.
Antonio è felice, guai a non esserlo! Penso sarebbe stato il peggiore dei peccati, quello di vivere senza gioia nell’abbondanza, si perché Antonio ha tutto quello che aveva chiesto e adesso non chiede più nulla.
Antonio si sente realizzato, ha concluso (perché ha voluto concludere, aggiungerei).
Ha attraversato il burrone ed è giunto alla fine, perché lui ha deciso che quella è la fine e che oltre non c’è nulla che valga la pena scoprire.
La vita non conclude, ha ragione Pirandello, ma la mente degli uomini è capace di cose orribili, anche di concludere.
Per oggi è felice Antonio, ma domani chissà se anche lui dovrà rendere conto al suo animo incontentabile. Forse sarà soltanto in quel momento che avrà concluso, celebrando un nuovo inizio.

Pierpaolo ha detto...

:)

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